L'esorcismo - Ultimo atto, la recensione

L'esorcismo - Ultimo atto spreca lo spunto meta sulla carriera di Russell Crowe per un dramma/horror insapore

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La recensione di L'esorcismo - Ultimo atto, il film con Russell Crowe diretto da M.A. Fortin e Joshua John Miller al cinema dal 30 maggio.

In una di quelle sottolineature di cui i bei film non hanno mai bisogno, uno dei personaggi di L'esorcismo - Ultimo atto dice quello che sarebbe ovvio comunque: "questo è un dramma psicologico travestito da horror". Potrebbe essere - ed è - il sintomo di una sceneggiatura debole, che teme giustificatamente di non riuscire a comunicare le proprie intenzioni attraverso il racconto. Ma da un altro punto di vista lo si può leggere come il tentativo di sviare l'opinione del pubblico da quella che più tempo passa e più diventa la verità evidente sul film. E cioè che L'esorcismo è il contrario di quello che dichiara di essere: si dà arie da dramma psicologico e meta-cinematografico. Ma sotto sotto è proprio solo un horror. Che non sarebbe niente di male. Se non fosse anche un brutto horror.

L'idea di fondere horror e meta-cinema non è certo nuova. Ci aveva già pensato Powell ai tempi di L'occhio che uccide (1960); poi i vari De Palma, Wes Craven, fino a Drew Goddard con Quella casa nel bosco (2011). Tutti accomunati dalla voglia di dire qualcosa di serio, molto cattivo e sarcastico sul genere e sul cinema: i meccanismi narrativi che si usurano, il voyeurismo dello spettatore, l'industria dell'entertainment come macchina infernale. L'esorcismo pesca da questa tradizione ma è evidente che il suo centro narrativo e tematico è un altro: Russell Crowe. Cioè la possibilità che un ruolo autoriflessivo offre di ragionare sulla carriera di un attore non più all'apice del successo, che negli ultimi anni si è barcamenato fra serie B e progetti a dir poco bizzarri.

Proprio al più recente e spassoso di questi - L'esorcista del papa - è impossibile non pensare quando si guarda L'esorcismo. Dove Crowe, dopo aver interpretato Padre Amorth come una specie di supereroe vaticano che andava in giro in Lambretta trincando whisky, stavolta interpreta un attore in fase calante a cui viene affidato il ruolo di...un esorcista. Sembrerebbe la ricetta per un'autoparodia coi fiocchi, ritratto di un uomo che non vince più gli oscar ma sa invecchiare prendendosi in giro. Invece ci si trova di fronte un film di una seriosità mortale, che vuole ricordare per tono l'indie anni '90 a cui è associata la casa produttrice Miramax (vedi anche certe facce come Adam Goldberg) ma finisce semmai per sembrare un remake senz'anima di Somewhere di Sofia Coppola con la sua dinamica fra padre attore e figlia estraniata (Ryan Simpkins).

Finché rimane su quel versante L'esorcista è un commentario senza niente da commentare. Il discorso sull'industria del cinema resta in superficie, mentre quello sulla carriera di Crowe è scritto in modo maldestro e contraddittorio: da una parte (forse con un occhio alle vicende giudiziarie dell'attore) si vorrebbe "esorcizzare" il senso di colpa di un uomo con una storia di abusi alcolici e tossicodipendenza, tormentato dalla morte della moglie e dall'aver perso di vista la figlia. Dall'altra però la sceneggiatura tende ad "assolverlo dai suoi peccati", arrabattando una lettura psicanalitica che fa risalire tutto a un episodio di violenza subito da bambino.

La cosa più frustrante è che più o meno da metà film L'esorcismo si dimentica di tutto questo per buttarsi anima e corpo sul versante horror, che se possibile esegue ancora peggio del dramma, con tutto il campionario di inquadrature strette e jumpscare che ci si aspetta dai prodotti di fascia più bassa. In confronto L'esorcista del papa era Friedkin.

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