Kung Fu Panda 4, la recensione

Al quarto film la storia di Kung Fu Panda da sovversiva diventa canonica, cavalcando gli stereotipi invece di ribaltarli

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Kung Fu Panda 4, in uscita al cinema il 21 marzo

Quello di Kung Fu Panda è quasi un caso da manuale di world building al contrario, o a posteriori, se preferite. Cioè si parte da un film che non costruisce nessun tipo di universo narrativo ma ha così tanto successo da generare dei sequel negli anni dell’esaltazione degli universi narrativi. Così questi sequel, pezzo per pezzo, a ritroso hanno costruito una specie di mitologia e quindi, per l’appunto, un universo narrativo fatto di regole, funzionamenti, meccanismi, figure cardine e via dicendo. Avviene così che adesso, al quarto film in 16 anni, Kung Fu Panda possa beneficiare di questo universo.

Le origini di Po sono state raccontate nel terzo film, scoprendo un popolo di panda come lui; è stato raccontato il pantheon del Kung Fu; sono state stabilite le basi del sistema dinastico attraverso il quale si tramanda il ruolo di Guerriero Dragone e ora è il momento di trovare un erede, Po deve avere un discepolo che sarà Guerriero Dragone dopo di lui. Come sempre il maestro Sifu vorrebbe qualcosa di tradizionale e invece, per rispettare il canone della saga, la scelta sarà imprevedibile e anticonvenzionale. La povertà del tutto è dimostrata dal fatto che i cinque cicloni non compaiono mai (se non un attimo alla fine) perché viene detto, sono “andati via in missione lontano”. Nemmeno a dirlo non sono più doppiati dalle star di prima.

E proprio il canone della saga è il problema. Questa serie di film ambientati in Cina che va sempre di più verso il cinema cinese (il capitolo precedente aveva proprio una consulenza cinese), preferendo a una trama strutturata il lavoro sull’espressività di mostri o animali antropomorfi, nell’evolversi perde il suo carattere. Il panda Po era un eroe diverso, che dimostrava come dolcezza e sensibilità fossero la vera forza. Era un primo tentativo, in anticipo di anni, di rivedere i connotati dell’eroe d’azione allontanandosi dal machismo. Anche un grande guerriero kung fu può non avere il solito atteggiamento (che Po sogna, ma in definitiva non ha) e mostrarsi debole senza per questo perdere. Che non era strano dalla Dreamworks, lo studio esploso con Shrek, cioè con la sovversione.

Nel momento in cui quel personaggio diventa un mentore, come avviene qui, la cosa ha molto meno senso, perché il fisico, l’atteggiamento e la posa del mentore le ha già. Mentore sui generis ovviamente, che tuttavia non è raro, anzi è uno stereotipo. Non c’è più niente da sovvertire, dice Kung Fu Panda 4, gli eroi non sono più necessariamente duri e machisti, e la sua originalità non è più tale. Poteva compensare questa perdita di identità una trama avvincente, invece una posta in gioco sempre più alta non trova coinvolgimento. Nonostante si esageri con il rischio e il pericolo (addirittura tutti i nemici del passato tutti insieme, l’equilibrio mondiale in bilico e via dicendo) quest’avventura non ha mai l’epica trascinante che dovrebbero avere. Suona ininfluente, leggera e dimenticabile. Non brutta, le consuete ironie ci sono (gli sceneggiatori sono sempre loro del resto, Jonathan Aibel e Glenn Berger), ma siamo dalle parti del nuovo episodio di una serie, la cui coerenza sta nell’umorismo e nei tormentoni, e non da quelle del film.

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