Kung Fu Panda 4, la recensione
Al quarto film la storia di Kung Fu Panda da sovversiva diventa canonica, cavalcando gli stereotipi invece di ribaltarli
La recensione di Kung Fu Panda 4, in uscita al cinema il 21 marzo
Le origini di Po sono state raccontate nel terzo film, scoprendo un popolo di panda come lui; è stato raccontato il pantheon del Kung Fu; sono state stabilite le basi del sistema dinastico attraverso il quale si tramanda il ruolo di Guerriero Dragone e ora è il momento di trovare un erede, Po deve avere un discepolo che sarà Guerriero Dragone dopo di lui. Come sempre il maestro Sifu vorrebbe qualcosa di tradizionale e invece, per rispettare il canone della saga, la scelta sarà imprevedibile e anticonvenzionale. La povertà del tutto è dimostrata dal fatto che i cinque cicloni non compaiono mai (se non un attimo alla fine) perché viene detto, sono “andati via in missione lontano”. Nemmeno a dirlo non sono più doppiati dalle star di prima.
Nel momento in cui quel personaggio diventa un mentore, come avviene qui, la cosa ha molto meno senso, perché il fisico, l’atteggiamento e la posa del mentore le ha già. Mentore sui generis ovviamente, che tuttavia non è raro, anzi è uno stereotipo. Non c’è più niente da sovvertire, dice Kung Fu Panda 4, gli eroi non sono più necessariamente duri e machisti, e la sua originalità non è più tale. Poteva compensare questa perdita di identità una trama avvincente, invece una posta in gioco sempre più alta non trova coinvolgimento. Nonostante si esageri con il rischio e il pericolo (addirittura tutti i nemici del passato tutti insieme, l’equilibrio mondiale in bilico e via dicendo) quest’avventura non ha mai l’epica trascinante che dovrebbero avere. Suona ininfluente, leggera e dimenticabile. Non brutta, le consuete ironie ci sono (gli sceneggiatori sono sempre loro del resto, Jonathan Aibel e Glenn Berger), ma siamo dalle parti del nuovo episodio di una serie, la cui coerenza sta nell’umorismo e nei tormentoni, e non da quelle del film.