Kubi, la recensione

Eterogeneo, folle e pieno di cambi di genere, Kubi contiene il meglio (in piccole dosi) e il peggio (in ampie) del cinema recente di Kitano

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Kubi, il film di Takeshi Kitano presentato a Cannes

In piena continuità con la trilogia Outrage anche in Kubi la trama è molto complicata da seguire, la narrazione solo apparentemente lineare e lo svolgimento così denso che si fa fatica a navigarci dentro. Ci sono molti personaggi, molti nomi e molti dialoghi pieni a loro volta di personaggi e nomi. Kubi è un film epico con castelli, eserciti, armate, battaglie e grandi signori che si fanno la guerra tramite i loro generali mentre i singoli soldati o anche i contadini muoiono, si tradiscono o cercano di rimanere vivi. Ma è la versione Kitano di tutto questo, quindi a tratti imprevedibile, piena di scarti di genere, personaggi caratterizzati dalla follia, un rapporto confidenziale con la violenza e la morte e iniezioni di umorismo là dove non sembra possibile che ci sia.

I personaggi in gioco sono un dei grandi signori del Giappone che va verso l’unificazione, un folle sadico; i suoi generali (tra cui lo stesso Kitano) intenti a pensare alla carriera, come diventare più importanti, come succedere ai colleghi morti e prendere il potere; un ex ninja che ora gira con una compagnia di intrattenitori che si trova preso nello scontro tra importanti casate e si schiererà; un paesanotto in cerca di gloria che si arruola, uccide il suo amico e vive con lo spettro di quella morte a perseguitarlo. Saltiamo tra le loro storie mentre la guerra infuria, senza quella scansione chiara del cinema epico cui siamo abituati ma più con l’anarchia delle idee di Takeshi Kitano e questo nonostante, organizzazione del racconto a parte, stilisticamente Kubi non abbia una grande personalità, anzi escluse le sequenze di commedia sia molto generico.

Kitano ovviamente sta con i livelli più bassi di questa storia, con chi materialmente combatte più che con i generali che mandano a morire i loro sosia e rimangono nascosti. Non obbedisce di certo alla retorica del valore e del coraggio, anzi al prende in giro e quello che emerge è solo il caos in cui i morti in battaglia (teoricamente uccisi per la causa) sono cadaveri generici e inutili tanto quanto i morti stupidamente uccisi nei palazzi dei nobili, uccisi per intrighi o per errore. I cadaveri sono sempre cadaveri e tutte le morti sembrano inutili, futili, cretine. È un mondo di stupidi e quindi di morti. Solo i pochissimi che sopravvivono hanno un minimo di dignità. E farà abbastanza ridere chi sceglie di tenere in vita.

Nel complesso però Kubi è un film sfilacciato che non riesce ad essere d’intrattenimento come vorrebbe la sua dimensione e il suo scopo e non è di certo il cinema di contemplazione degli anni ‘90. Anche le figure migliori, come il ninja intrattenitore, dà l’idea che lo avesse interpretato lo stesso Kitano (ma non ne ha l’età) avrebbe avuto un senso, così invece è un’arma spuntata. E quando alla fine, nel suo terzo atto, Kubi scarta e deflagra apertamente in commedia, in un succedersi di eventi che danno più centralità al suo personaggio di Takeshi Kitano, allora si intravede quello che questo film poteva essere e non è, una storia in cui tutto è serio tranne l’unico a comandare

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