Kubi, la recensione
Eterogeneo, folle e pieno di cambi di genere, Kubi contiene il meglio (in piccole dosi) e il peggio (in ampie) del cinema recente di Kitano
La recensione di Kubi, il film di Takeshi Kitano presentato a Cannes
I personaggi in gioco sono un dei grandi signori del Giappone che va verso l’unificazione, un folle sadico; i suoi generali (tra cui lo stesso Kitano) intenti a pensare alla carriera, come diventare più importanti, come succedere ai colleghi morti e prendere il potere; un ex ninja che ora gira con una compagnia di intrattenitori che si trova preso nello scontro tra importanti casate e si schiererà; un paesanotto in cerca di gloria che si arruola, uccide il suo amico e vive con lo spettro di quella morte a perseguitarlo. Saltiamo tra le loro storie mentre la guerra infuria, senza quella scansione chiara del cinema epico cui siamo abituati ma più con l’anarchia delle idee di Takeshi Kitano e questo nonostante, organizzazione del racconto a parte, stilisticamente Kubi non abbia una grande personalità, anzi escluse le sequenze di commedia sia molto generico.
Nel complesso però Kubi è un film sfilacciato che non riesce ad essere d’intrattenimento come vorrebbe la sua dimensione e il suo scopo e non è di certo il cinema di contemplazione degli anni ‘90. Anche le figure migliori, come il ninja intrattenitore, dà l’idea che lo avesse interpretato lo stesso Kitano (ma non ne ha l’età) avrebbe avuto un senso, così invece è un’arma spuntata. E quando alla fine, nel suo terzo atto, Kubi scarta e deflagra apertamente in commedia, in un succedersi di eventi che danno più centralità al suo personaggio di Takeshi Kitano, allora si intravede quello che questo film poteva essere e non è, una storia in cui tutto è serio tranne l’unico a comandare