Koza Nostra, la recensione

Una donna ucraina si ritrova governante della casa di un boss mafioso. Koza Nostra propone equivoci e situazioni paradossali, ma ben poche risate. La recensione

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La nostra recensione di Koza Nostra, al cinema dal 19 maggio

"Film sulla mafia" e "film incentrato su una famiglia" vanno spesso a braccetto, e anche la loro versione parodica non è certo una novità. Collocandosi perfettamente in questo duplice sotto filone, Koza nostra, dunque, si presenta già in partenza come un’opera non certo originale; l’impressione sarà poi rafforzata dalla storia che segue, che scorre su binari già ampiamente percorsi senza proporre nulla di nuovo.

Scoprendo di essere diventata nonna, una donna ucraina, Vlada Koza (Irma Vitovska), decide di partire per l'Italia per andare a trovare la figlia, spostata con un carabiniere. Piombandole di sorpresa in casa, quest’ultima si trova impreparata e, non apprezzando i modi invadenti della madre, decide di metterla alla porta. A causa di un incedente d’auto, Vlada diventa così la governante della casa di Don Alfredo (Giovanni Calcagno), boss mafioso appena uscito dopo quindici anni di prigione, abbandonato dalla moglie e con tre problematici figli da gestire.

Il film di Giovanni Dota intreccia due grandi e classici temi: lo scontro generazionale e quello tra tradizione e modernità. I tre figli di Don Alfredo non si sentono né amati né ascoltati dal padre, tra chi vorrebbe diventare parte attiva dei suoi loschi affari e chi invece li rinnega. Luca vorrebbe diventare come il padre ma non ha mai una chance; Gianni ha studiato informatica negli Stati Uniti e, una volta tornato a casa, vorrebbe proporre i suoi metodi innovativi. Francesca infine è l’intraprendente che cerca di staccarsi dall’eredità paterna, rispondendo sempre a tono e rivendicando il suo ruolo non subalterno. Figure macchiettistiche delineate con l’accetta, in un intreccio altrettanto banale.

A tenere banco nella storia sono infatti gli equivoci (a Vlada viene fatto credere che l’impresa di famiglia si occupi di pulizie), i personaggi imbranati e incapaci, le situazioni paradossali ed esasperate (come sparatorie sule note di canzoni pop). Ma le risate latitano ed è poi il generale approccio a stonare. Verso i protagonisti e il contesto in cui si muovono lo sguardo è ironico ma non certo sagace, utile ad una placida riaffermazione della morale già chiara dalla prima scena. I paesani accettano senza battere ciglio la presenza e il poter del clan di Don Alfredo, il racket della prostituzione è un dato di fatto. Il microcosmo mafioso non è infatti mai messo in discussione, perché quello che interessa maggiormente a Dota è raccontare la parabola dei personaggi, verso un esito scontato.

Su Francesca si sofferma in particolare l’intreccio, come donna che emerge in un mondo, quello del crimine organizzato, tipicamente maschile e maschilista, superando con i fatti le resistenze dei padri e dei fratelli. Una figura a cui il panorama audiovisivo italiano sta dando sempre più attenzione ultimamente, dai film, come Una femmina, alle serie, come Bang Bang Baby. In Koza nostra, però, quello che poteva essere un personaggio ambiguo e complesso si rivelerà molto più piatto e la sua spinta eversiva sarà poi incanalata nei dettami della famiglia. Cambiare tutto perché nulla cambi.

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