Koza Nostra, la recensione
Una donna ucraina si ritrova governante della casa di un boss mafioso. Koza Nostra propone equivoci e situazioni paradossali, ma ben poche risate. La recensione
"Film sulla mafia" e "film incentrato su una famiglia" vanno spesso a braccetto, e anche la loro versione parodica non è certo una novità. Collocandosi perfettamente in questo duplice sotto filone, Koza nostra, dunque, si presenta già in partenza come un’opera non certo originale; l’impressione sarà poi rafforzata dalla storia che segue, che scorre su binari già ampiamente percorsi senza proporre nulla di nuovo.
Il film di Giovanni Dota intreccia due grandi e classici temi: lo scontro generazionale e quello tra tradizione e modernità. I tre figli di Don Alfredo non si sentono né amati né ascoltati dal padre, tra chi vorrebbe diventare parte attiva dei suoi loschi affari e chi invece li rinnega. Luca vorrebbe diventare come il padre ma non ha mai una chance; Gianni ha studiato informatica negli Stati Uniti e, una volta tornato a casa, vorrebbe proporre i suoi metodi innovativi. Francesca infine è l’intraprendente che cerca di staccarsi dall’eredità paterna, rispondendo sempre a tono e rivendicando il suo ruolo non subalterno. Figure macchiettistiche delineate con l’accetta, in un intreccio altrettanto banale.
Su Francesca si sofferma in particolare l’intreccio, come donna che emerge in un mondo, quello del crimine organizzato, tipicamente maschile e maschilista, superando con i fatti le resistenze dei padri e dei fratelli. Una figura a cui il panorama audiovisivo italiano sta dando sempre più attenzione ultimamente, dai film, come Una femmina, alle serie, come Bang Bang Baby. In Koza nostra, però, quello che poteva essere un personaggio ambiguo e complesso si rivelerà molto più piatto e la sua spinta eversiva sarà poi incanalata nei dettami della famiglia. Cambiare tutto perché nulla cambi.