Kong: Skull Island, la recensione
Facile a dimenticarsi ma esaltante per il periodo della visione, Kong: Skull Island mette davvero al centro di tutto Kong, lasciando ai margini gli umani
La guerra in Vietnam sta finendo e alcuni uomini del progetto Monarch (una sezione che per conto del governo americano indaga la presenza di forme animali mostruose sconosciute) capiscono che è un buon momento per farsi finanziare una spedizione sull’isola del teschio, finalmente trovata grazie a nuove foto satellitari. Niente più motivazioni di business o di foga artistica come nell’originale del ‘33, niente più grande metafora del vedere qualcosa di mai visto ma solo vendetta personale, ricerca di un’altra guerra e missioni governative mettono in moto la trama, cioè le motivazioni più vaghe e impersonali. Perché Kong: Skull Island è un film impersonale, che svilisce i personaggi per esaltare l’ambiente.
La pattuglia eterogenea che approda all’isola del teschio, passando in una tempesta di fulmini e nubi nella quale Samuel L. Jackson ha occasione di pronunciare uno dei suoi monologhi di cui solitamente è anche autore, è dunque formata da alcuni scienziati, dei militari di ritorno dalla guerra, un avventuriero assoldato per l’occasione e una fotografa che si intrufola odorando la grande scoperta. Di nessuno di loro sapremo mai davvero qualcosa, non sapremo bene cosa abbia fatto impazzire alcuni militari, non sapremo cosa lega la fotografa all’avventuriero né che vita abbia condotto questo per essere tale, né tantomeno (ed è incredibile) il loro rapporto avrà un’evoluzione, non sapremo nemmeno che demoni abbiano dentro di sé (se li hanno) o tutto quello con cui solitamente il cinema d’azione ama ammorbarci. I personaggi parlano molto ma alla fine sono come i nativi dell'isola: muti. Kong: Skull Island è un film d’avventura in cui il contesto importa molto più di chi ci si muove dentro, in cui ogni energia è profusa nella definizione dell’isola e della sua dimensione visiva, che intende il termine “cinema di serie B” (come solitamente è quello di mostri) con un’enfasi inedita sull’agire. Alla fine infatti molto più impegno andrà nello spiegare le origini di Kong e le caratteristiche dell’isola, di quanto ne venga speso per uno solo dei personaggi.
La sorpresa è quanto Jordan Vogt-Roberts riesca bene nell’impresa, quanto pur svilendo la sceneggiaturaLa sorpresa è quanto Jordan Vogt-Roberts riesca bene nell’impresa, quanto pur svilendo la sceneggiatura (sembra scritta 30 anni fa per ingenuità, assegnazione di toni e alleggerimento ai singoli personaggi e mancanza di quella moderna ossessione per il dettaglio o la spiegazione di tutto) riesca a mettere in scena la grande fantasia escapista dell’ultimo luogo incontaminato, del terrore della scoperta e del contatto con la natura selvaggia nel senso più titanico. Ancora di più sorprende quanto prenda di petto il concetto di “film di mostri”, abbracciandone le caratteristiche meno intellettuali e quindi più originali per un film rapido a dimenticarsi ma realmente avvincente per il periodo della visione. Il vero B movie ad altissimo budget.
La nota decisione di mostrare immediatamente la creatura sembra allora perfettamente in linea con il suo essere davvero protagonista, e anche l’immancabile momento di comunione con la donna umana cambia radicalmente. Non è più absusato metaforone della bella e la bestia ma diventa uno dei molti momenti che definiscono la “psicologia” e le ragioni del mostro. L'unico essere che conti davvero.
Dopo i titoli di coda, una scena aggiuntiva ci dà un "assaggio" di ciò che verrà. Una passerella revival tra Jurassic Park e il più sgangherato e adorabile cinema di serie B giapponese.