Kjӕrlighet (Love), la recensione: cartoline dal paradiso

La recensione di Love, secondo film della trilogia di Dag Haugerud iniziata con Sex (2024) presentato a Venezia 81.

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Vedere Love è come stare immersi per due ore in una cartolina di Oslo e contemporaneamente leggere quelle statistiche da cui emerge come i paesi scandinavi siano per distacco i più paritari, tolleranti e progrediti del mondo. Dal minuto 1 ti prende sotto una coperta calda e ti mette in compagnia di persone bellissime, ricchissime, emancipatissime, lasciandoti origliare conversazioni profonde incorniciate da salotti in legno (rigorosamente a lume di candela), parchi curati ad arte, luci dello skyline che si riflettono in acqua mentre fai l’amore con la tua ultima tinder date. È a tutti gli effetti uno spot non solo di una città ma di un’intero modo di vivere. Ma è uno spot efficacissimo, perché (accidenti a loro!) dai dialoghi e dalle interazioni fra i personaggi emergono davvero una sensibilità e una tenerezza disarmanti. Bagno caldo, seduta di terapia. Scegliete l’equivalente che preferite.

Non usiamo la parola spot a caso. Una delle prime scene di Love consiste in un tour delle bellezze cittadine dove una delle protagoniste cerca (con attenzione a temi come femminismo e inclusività) di convincere le autorità del comune a investire soldi per una festa nazionale. Da lì in poi non ci si ferma più, orchestrando ogni dialogo – il film è sostanzialmente una sequenza di dialoghi a due – in modo da enfatizzare la bellezza e l’efficienza che circonda i protagonisti. La tradizione delle sinfonie urbane (vedi il finale musicale) incrocia qui logiche cine-turistiche, che però non funzionerebbero se venisse meno l’elemento umano che sostiene tutto. Sicuramente in parte idealizzando quel mondo, Love squaderna invece un calore assoluto e soprattutto una capacità di sviscerare tramite il dialogo i problemi che pure emergono nel corso della storia.

Protagonisti sono due colleghi urologi (Andrea Brӕin Hovig e Tayo Jacobsen - strepitoso) che alternano una vita professionale a contatto col dolore dei malati di cancro alla prostata a una privata caratterizzata da una libertà sentimentale assoluta. Lei si fa intrigare da un geologo (ma non rinuncia al sesso occasionale); lui che normalmente non si impegna si innamora di un paziente della clinica, cercando di penetrare la corazza di una persona ferita e diffidente. Tutti i dialoghi sono scritti benissimo, sempre nella direzione di rappresentare esseri umani che si conoscono perfettamente e che mettono quella conoscenza al servizio della sofferenza altrui. C’è un momento in cui dopo aver fatto sesso un uomo si lancia in un monologo depresso da cui si capisce che in realtà ha più di un problema con la libertà femminile. In seguito la protagonista ci riflette sopra senza biasimarlo: “non credo sia una cattiva persona”.

Tutto insomma si può risolvere con l’abitudine all’ascolto e all’elaborazione terapeutica, al punto che a qualcuno Love potrebbe risultare quasi irritante: la rappresentazione di una società che non può esistere, e se davvero esistesse a questi livelli non rimarrebbe niente da elaborare artisticamente. Ma il film riesce anche ad aggirare quella diffidenza proponendo dialoghi che non schivano il dolore e i dubbi: semplicemente sanno prenderli di petto.

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