King Kong

Un folle regista, la New York degli anni trenta, ma soprattutto la bella e la bestia. Peter Jackson riporta in vita il mito del gorilla gigante. Il risultato finale offre momenti meravigliosi, ma si rivela essere una mezza delusione…

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Il King Kong di Peter Jackson mi dà l’impressione di un film uscito dagli anni settanta. No, il remake di De Laurentiis non c’entra nulla. Mi riferisco al senso di onnipotenza che ogni minuto (187, per la cronaca) di questa pellicola emana. Sembra di vedere certi film di Francis Ford Coppola, Robert Altman, Michael Cimino o William Friedkin, dopoché questi registi avevano colto dei successi importanti. L’impressione è che in questo caso il regista sia totalmente libero di fare quello che vuole e abusi di questo potere. Che, insomma, manchi un produttore (figura fondamentale) capace di dire “basta” e di chiedere qualche sana sforbiciata in sala di montaggio.
La cosa straordinaria di Peter Jackson è che, a differenza dei suoi colleghi di trent’anni fa, crollati per troppa presunzione e per flop costosissimi, lui è stato in grado di fare una pellicola da oltre duecento milioni di dollari, ma che sicuramente ripagherà con gli interessi la Universal. Ed è così intelligente da aver già optato, come suo prossimo progetto, per un film piccolo come l’adattamento di Amabili resti (sul fatto che io non abbia amato il libro direi che per ora è il caso di sorvolare, tanto avremo tempo per riparlarne).

In King Kong ci sono, senza alcun dubbio, momenti di grande cinema. Il problema è che si fa una gran fatica a trovarli, considerando sotto quanta roba superflua (attenzione, ho detto superflua, non brutta) siano seppelliti. Non è tanto che ci siano specifiche scene da tagliare in toto (anche se l’insistenza nel mostrare l’ossessione di Carl Denham o alcuni momenti del finale sono francamente eccessivi). E’ proprio che quasi ogni scena (verrebbe quasi da dire ogni inquadratura) è dilatata all’inverosimile, come se il regista volesse soffermarsi sempre un attimo di troppo per dare un’impressione di grande profondità espressiva.

Ed è inutile fare il paragone con gli episodi de Il Signore degli Anelli, che duravano anche loro tre ore, per dimostrare che un film d’avventura possa essere così lungo. Nessun dubbio in teoria, ma in pratica qui gli eventi (a differenza degli adattamenti di Tolkien) non reggono per un tempo così lungo. D’altronde, se l’originale durava poco più della metà e la storia narrata è sostanzialmente la stessa, qualche problema ci deve essere. Non si tratta, beninteso, di momenti noiosi, ma di un ritmo spesso poco avvincente e molto autoindulgente. Mi viene da pensare che molti bidelli tolkieniani avrebbero amato un adattamento dell’opera del professore simile a questa pellicola. Un’opera in cui, per mostrare che il regista si venderebbe (se già non l’ha fatto prima) sua madre per filmare del materiale interessante, ci vengono presentate 5-6 scene (sempre più eccessive) in cui il personaggio interpretato da Jack Black si disinteressa dei pericoli e dei morti che lo circondano per continuare il suo lavoro. E in cui, soprattutto, il rapporto tra la bella e la bestia (sicuramente la cosa migliore del film) presenta fin troppi momenti didascalici riguardanti il loro rapporto.

Leggendo le recensioni oltreoceano, si parlava del fatto che buona parte dei primi settanta minuti (quelli che passano prima di vedere Kong) fossero stati utilizzati per costruire sapientemente i personaggi principali. Francamente, è difficile concordare con questa analisi. Per esempio, Jack Driscoll, il commediografo innamorato di Ann Darrow, è praticamente una pagina bianca (sarà la sindrome di mancanza d’idee?). Di lui, sappiamo solo che ama il teatro e non lo fa per soldi.
Che dire poi del regista che dà il via a tutta questa incredibile avventura? E’ un simpatico truffatore visionario, che ricorda Orson Welles, ma anche Francis Ford Coppola. Ma è decisamente un personaggio monotematico, capace sì di suscitare molte risate, ma poche autentiche emozioni. Stranamente, gli sceneggiatori decidono di approfondire molto di più alcuni marinai (in particolare, quello interpretato da Jamie Bell, l’ex Billy Elliot), per poi non utilizzare in maniera importante questi personaggi (errore francamente inspiegabile e che, invece di aver fornito la profondità di cui parla qualcuno, ha solo messo ulteriore ed inutile carne al fuoco).

Per fortuna, c’è la coppia interrazziale a salvare il film. Naomi Watts è bravissima nel tenere testa ad un ruolo (e ad un personaggio) così impegnativo. Ha una grazia e un’eleganza naturali, mista ad una forza e ad un carisma perfetto per la parte. Essere all’altezza di Fay Wray sembrava un compito impossibile, ma lei ci riesce.
E poi, soprattutto, c’è il più grande (in tutti i sensi) personaggio digitale della storia del cinema. Sì, d’accordo, Gollum era fantastico, ma era più facile vedere in lui barlumi di umanità, considerando il suo passato da hobbit. Qui invece bisogna mostrare un gorilla in tutta la sua complessità. Un personaggio che non ha perso nulla della sua ferocia e cattiveria, ma che dimostra dei sentimenti sconosciuti agli esseri umani con cui viene a contatto (a parte, ovviamente, Ann). Alcuni loro momenti sull’isola e a New York sono straordinari. Penso per esempio a tutta la sequenza con i tirannosauri (girata magistralmente e che tiene assolutamente inchiodati alla poltrona) o a una meravigliosa danza a Central Park. Ma anche in questo caso, un maggiore equilibrio nel film le avrebbe rese ancora migliori. Infatti, prima dello scontro Kong – T-Rex, c’è una lunga (guarda caso, troppo lunga) sequenza di fuga dei marinai da parte di un branco di dinosauri. E anche la sequenza a New York a cui mi riferisco, viene poi annacquata da troppo materiale (e sostanzialmente ripetuta sull’Empire State Building).

Che dire poi degli effetti speciali? Sicuramente, un altro passo in questa arte è stato compiuto, in particolare per il lavoro su Kong (inutile insomma dirvi chi vincerà l’Oscar della categoria quest’anno). Ma l’eccesso dell’utilizzo degli f/x provoca anche risultati poco convincenti in alcuni momenti, in cui umani e dinosauri si dividono lo schermo in maniera vistosamente fasulla.

Insomma, sta allo spettatore decidere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Certo, per un regista che ci aveva abituato in questi anni ad una trilogia pressoché perfetta, è sicuramente un passo indietro. Ma considerando che i blockbuster spettacolari del ventunesimo secolo sono Van Helsing e Troy, non si può che rimanere sollevati vedendo opere di ben altro livello. Però, per favore, non mi parlate di capolavoro. E soprattutto, non mi parlate di versione estesa…

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