King Arthur: Il Potere Della Spada, la recensione
Mascherato da film commerciale denso d'azione, Guy Ritchie ha girato un film sperimentale in cui tutti i tempi convivono per creare un'epica originale
È, semmai, il suo stile di racconto che le ingarbuglia mescolando con il montaggio situazioni e momenti, nasconendo o svelando indizi solo quando serve. Il segreto di pulcinella dello storytelling (il rilascio graduale delle informazioni) per questo regista inglese non è una questione di scrittura o di recitazione, ma una puramente di montaggio, il suo giocattolo preferito. Ha reso in questo modo unico il gangster movie britannico, ma ha anche creato una dimensione fumettosa per Sherlock Holmes.
King Arthur non fa eccezione e inventa un altro modo ancora di sfruttare la sua passione per gli stacchi violenti e le associazioni originali, uno che mette sullo stesso piano diversi tempi e dà vita al blockbuster più tradizionale e al tempo stesso originale degli ultimi anni.
La vicenda è quella del piccolo Artù, che vede morire la madre davanti ai suoi occhi per mano dello zio Jude Law, ma rimuove il ricordo. Cresciuto in un bordello impara la vita della strada e come Conan il Barbaro da quel trauma emerge come un colosso di scaltrezza e pugni duri. Ben integrato con la vita cittadina e i suoi sistemi di potere verrà costretto, come tutti i sudditi, a tentare di estrarre la spada nella roccia riuscendoci nello stupore generale. Questo lo renderà immediatamente il nemico n.1 della monarchia e lo metterà automaticamente nelle fila della fazione opposta.
In linea di massima il film segue questa linea, cioè quella effettivamente proveniente dal Ciclo arturiano e da alcuni romanzi più moderni, ma c’è molto di più da un universo fantasy in cui i maghi sono una fazione a sé, guidata da un Merlino che non vediamo fino ad un culto orientale della spada come oggetto depositario del potere.
Sembra di essere davanti ad un film d’autore per l’audacia delle soluzioni e invece è un trionfo di cinema mainstream, Ritchie usa il montaggio per creare l’illusione che presente passato e futuro, a tratti, convivano nel medesimo momento. Riesce a rendere molto chiara una narrazione che fa avanti e indietro con il futuro, che si riavvolge con un flashback e subito dopo mostra qualcosa che verrà. La padronanza tecnica è mostruosa, il risultato esaltante e nel farlo riesce anche a non perdere di vista i dettagli che danno corpo alla storia, come ad esempio un design delle creature di straordinaria efficacia (si veda cosa accade quando il re scende nei sotterranei ad evocare dalle acque una creatura che pare uscita dal Dune di Lynch). Lo si capisce subito cosa accadrà già da quando, dopo la prima grande scena introduttiva, parte quella che potrebbe essere considerata la sigla, un montaggio in cui il piccolo Artù cresce nella violenza e nella microcriminalità, con una musica in totale antitesi. È contemporaneamente qualcosa che riconosciamo e qualcosa cui non siamo abituati.
A deludere è semmai la parte recitativa. Jude Law è un ottimo villain (dal cinismo un po’ post Young Pope) ma il resto del cast, incluso Charlie Hunnam, latita e stenta a lasciare il segno. Nei pochi momenti in cui si avverte l’ampio respiro della “formazione di un leader” a partire dal classico bullo a la Ritchie (che poi è quel che racconta questo film, evidentemente primo di una serie), sembra che tutto ciò avvenga nonostante la recitazione dozzinale.