[Cannes] Killing them softly, la recensione

Concentrato nel portare una metafora molto diretta e nello spiegare i propri intenti a parole, Andrew Dominik usa stili e idee altrui per un film di rapina non convenzionale ma non per questo bello...

Critico e giornalista cinematografico


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Già che c'era poteva anche dire chi uccide chi dolcemente (il sistema uccide l'uomo, la retorica la verità, lo stato i suoi cittadini?), così da levare anche l'ultimo piccolo spazietto lasciato agli spettatori per interagire con il suo film.

Con il suo terzo film, il primo dopo il successo internazionale di L'assassinio di Jesse James da parte del codardo Robert Ford, Andrew Dominik prosegue nel solco del ribaltamento dei miti cardine e degli ideali statunitensi. Se lì ribaltava una delle storie diventate leggenda, usate per perpetuare una certa idea di giustizia e valori americani, qui invece mostra quella che ritiene essere la vera anima e il vero spirito del suo popolo, in aperto contrasto con tutta la retorica dei discorsi politici (di Obama e Bush jr. allo stesso modo, siamo nel 2008) che televisioni e radio trasmettono continuamente. Una visione pessimista bagnata per tutto il film da una pioggia costante. Soluzione artistica e visiva che va a braccetto con una visione di mondo.

Ma tutto l'intento della pellicola si risolve in una trama che asciuga e dilatata il classico film di rapina (ribaltandone la prospettiva a metà, dai rapinatori a chi deve "pulire" le loro malefatte), per lasciare spazio a lunghi dialoghi in cui a Brad Pitt spetta l'onere di spiattellare le metafore senza tanti giri di parole.

La malavita è l'allegoria del sistema capitalistico, la sua crisi va in accordo con la crisi economica, la cupola è priva di una guida e applica una "corporation mentality" e infine si rifiuta di pagare quanto pattuito per tirare al risparmio. La conclusione (non vi anticipo nulla anche se arriva nel finale) è che l'America non è un popolo ma un insieme di individualisti. Detto più o meno con queste parole. Niente di più, niente di meno.

A separare lo spettatore da questa ben poco soddisfacente morale c'è un film che alterna elementi cari ai Coen (il caos portato nella vita dall'estrema stupidità umana), a quelli cari a Tarantino (la malavita come "lavoro", la verbosità dei protagonisti e la coolness esibita), senza nascondere le ispirazioni e senza trovare una sintesi personale tra di esse, ma anzi lasciando all'ego dell'autore un paio di macroscene ad effetto.
Una di queste, in vero molto bella, vede Ray Liotta pestato sotto la pioggia con inusitato realismo, sottolineato dal ralenti e dall'illuminazione di un faro (simile al flash della macchina fotografica) che in maniera irreale ed esagerata aumenta la pornografica ripresa del tutto. Ma proprio per la loro peculiarità queste poche "scene d'artista", sembrano assoli fuori contesto, impennate quando si è ultimi in gara e se possibile non fanno che peggiorare il giudizio su un film didascalico, pedante e alla fine molto banale.

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