[Cannes] Killing them softly, la recensione
Concentrato nel portare una metafora molto diretta e nello spiegare i propri intenti a parole, Andrew Dominik usa stili e idee altrui per un film di rapina non convenzionale ma non per questo bello...
Già che c'era poteva anche dire chi uccide chi dolcemente (il sistema uccide l'uomo, la retorica la verità, lo stato i suoi cittadini?), così da levare anche l'ultimo piccolo spazietto lasciato agli spettatori per interagire con il suo film.
Ma tutto l'intento della pellicola si risolve in una trama che asciuga e dilatata il classico film di rapina (ribaltandone la prospettiva a metà, dai rapinatori a chi deve "pulire" le loro malefatte), per lasciare spazio a lunghi dialoghi in cui a Brad Pitt spetta l'onere di spiattellare le metafore senza tanti giri di parole.
A separare lo spettatore da questa ben poco soddisfacente morale c'è un film che alterna elementi cari ai Coen (il caos portato nella vita dall'estrema stupidità umana), a quelli cari a Tarantino (la malavita come "lavoro", la verbosità dei protagonisti e la coolness esibita), senza nascondere le ispirazioni e senza trovare una sintesi personale tra di esse, ma anzi lasciando all'ego dell'autore un paio di macroscene ad effetto.
Una di queste, in vero molto bella, vede Ray Liotta pestato sotto la pioggia con inusitato realismo, sottolineato dal ralenti e dall'illuminazione di un faro (simile al flash della macchina fotografica) che in maniera irreale ed esagerata aumenta la pornografica ripresa del tutto. Ma proprio per la loro peculiarità queste poche "scene d'artista", sembrano assoli fuori contesto, impennate quando si è ultimi in gara e se possibile non fanno che peggiorare il giudizio su un film didascalico, pedante e alla fine molto banale.