Killing Kennedy: la recensione
Killing Kennedy, il film tv prodotto da Ridley Scott è il riassunto non molto brillante della carriera della Presidenza Kennedy
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Il primo merito va ad un cast di nomi tutto sommato noti a chi mastica qualcosa del panorama televisivo degli ultimi anni: Rob Lowe (Parks & Recreation, Brothers & sisters), Ginnifer Goodwin (la Biancaneve di Once Upon a time) e Michelle Trachtenberg (Buffy) sono i volti più familiari in scena. In linea con la messa in scena, anche qui le interpretazioni non vanno oltre il buon compito svolto, né la scrittura favorisce particolarmente eventuali grandi momenti in cui lasciar spiccare il proprio, eventuale, talento al di fuori degli ingessati panni del personaggio storico da far vivere sullo schermo.
Killing Kennedy vive delle due anime dei suoi protagonisti. Il primo, Kennedy (Lowe non sarà l'attore del secolo ma il lavoro sulla somiglianza fisica è davvero notevole), la cui storia si dipana lungo un non particolarmente interessante elenco degli eventi salienti della sua Presidenza, senza soprassedere sui difetti umani di "Jack", ma certamente senza nemmeno voler infierire troppo. Si passa dall'insediamento, al fallimento alla Baia dei Porci, alla crisi cubana, senza la dovuta tensione che ognuna di queste situazioni (capace di riempire un film intero) meriterebbe, ma tutte schiacciate dalla necessità storica di un racconto che precipita frettolosamente verso il famoso giorno a Dallas nel quale le due vite dei protagonisti, fino a quel momento ovviamente parallele, si incontrano.Probabilmente i momenti più interessanti, anche perché più sconosciuti al grande pubblico, sono quelli riguardanti la vita di Lee Harvey Oswald. Il film rigetta consapevolmente qualunque tentativo di andare ad indagare tesi complottiste, eventuali accordi tra la mafia, la CIA o altri, per concentrarsi pienamente sulla vicenda umana e sulle motivazioni dell'assassino. Ciò che emerge è il ritratto di un uomo da un lato evidentemente disturbato ma soprattutto desideroso di attirare l'attenzione su di sé, di far parte e di svolgere un ruolo da protagonista nei grandi cambiamenti in atto in quegli anni. E va dato atto a Will Rothhaar di aver tratto il meglio da una sceneggiatura non brillantissima che, se ovviamente non permette di parteggiare per lui, al tempo stesso ci dà modo di comprenderne le ragioni.
La tecnica di Killing Kennedy, nemmeno a dirlo, non eccelle particolarmente. Rapidi cambi di fotografia ci suggeriscono le diverse location in cui i protagonisti si trovano (Stati Uniti o Unione Sovietica), mentre la regia non fa molto di più di quanto si richiederebbe ad un prodotto del genere, valido per chi voglia fare un rapido e poco approfondito ripasso delle vicende del periodo, ma che non offre molto più di questo.