Killing Eve (terza stagione): la recensione
Orfana, già da due stagioni, della penna di Phoebe Waller-Bridge, Killing Eve si appoggia come può a Jodie Comer
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Orfana, già da due stagioni, della penna di Phoebe Waller-Bridge, Killing Eve si appoggia come può a Jodie Comer. Ed è qualcosa che ci dice tanto sia sul talento espressivo dell'attrice britannica, sia sulla fatica della serie tv nell'elaborare spunti alternativi a quelli già ben noti. Allora, Killing Eve riesce a raccontarsi solo nell'estensione senza limiti di una tensione sessuale-drammatica che chiede a gran voce di trovare soddisfazione. Eppure, e la serie lo sa bene, è proprio l'ambiguità eterna e irrisolta delle due protagoniste a tenere viva la fiamma della storia. Solo che, alla terza stagione, questo non basta più.
La vicenda dei Dodici, le logiche interne ai servizi segreti, perfino la morte misteriosa di Kenny in chiusura di primo episodio, non hanno mai una reale importanza. Né alla scrittura della serie interessa porre paletti rigidi sui limiti da attraversare, sugli schieramenti in gioco, sulle motivazioni o le risposte attese dai personaggi. Un mistero (ma era tale?) potrà essere risolto in parte da un video che esce fuori all'ultimo secondo, un personaggio ne lascerà andare un altro più per l'esigenza di non tagliarlo fuori dalla storia che per altro. E nessun incontro, o nessuno scontro, è mai definitivo, perché tende, come la tensione sessuale tra Eve e Villanelle, alla posticipazione del piacere e del dolore.
La stagione ha una confusione di fondo che è più agevole lasciarsi alle spalle una volta concluso che, tutto sommato, quello che accade non è così importante. Eve e Villanelle scrivono la propria fanfiction romantica in un mondo dello spionaggio che non ha spessore perché non vuole averne.