Kate, la recensione

Kate prende suggestioni e idee da tutto il cinema action degli ultimi 10-15 anni ma non trova mai una propria ragion d'essere.

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Quando ci si imbarca nella produzione di un film bisognerebbe almeno avere un’idea propria da sviluppare. Non deve per forza essere originale, ma avere un qualcosa di personale, di distintivo. Un qualcosa da dire, o da mostrare. A volte basta anche solo un’idea estetica per poter giustificare film interi. Alla base di Kate non c’è invece un’idea che sia una. O meglio è pieno di intuizioni, ma sono una accostata all’altra come in un elenco della spesa e tutte derivate da altre opere. Rubate, nella speranza che la somma dei singoli elementi di valore possa dare un esito altrettanto valido. Come facilmente intuibile, non è così.

Basta la trama di Kate per dare la misura dei debiti che questo film ha nei confronti di chi l’ha preceduto. Ne citiamo solo due, per lasciare il divertimento di trovare gli altri allo spettatore: Crank e Atomica Bionda. Una spietata assassina infallibile uccide un uomo di fronte a una giovane ragazza, lasciandola sotto shock. Le strade delle due si rincontreranno pochi mesi dopo, quando la killer identificata come “Kate” riceve la sua missione successiva. C’è però un ostacolo: qualcuno l’ha avvelenata. Il suo corpo inizia a deperire e ha solo poche ore per concludere la missione e, possibilmente, trovare un modo per sopravvivere. 

La principale debolezza di Kate sta nel non avere abbracciato con maggiore coraggio la sua vocazione action. Il regista Cedric Nicolas-Troyan è stato affiancato dal produttore David Leitch, l’uomo dietro al già citato Atomica Bionda, ma anche Deadpool 2 e John Wick. È probabile che sia stato proprio l’apporto di quest’ultimo a permettere un salto di qualità nelle riprese di seconda unità, quella degli stunt e delle scene d’azione, decisamente notevoli anche se non esenti da difetti.

Il punto è che Kate fa quello che deve: rimbomba e tiene agganciati all’azione quando si lotta e ci si spara, mentre perde tutto lo smalto durante i momenti che dovrebbero fare avanzare il racconto. Sono sequenze slegate, confusionarie e svogliate. Come non potere mettere le mani su un joypad durante un appassionante videogioco aspettando di entrare nel vivo del divertimento tra una cutscene e l’altra. 

Una scelta notevole è invece quella di mostrare concretamente lo scorrere del tempo (e quindi innescare un meccanismo di tensione) attraverso il corpo martoriato di Mary Elizabeth Winstead. Lontana da una Charlize Theron per presenza scenica e passione per l’azione, Winstead fa però di tutto per rappresentare la sofferenza. È qui che Kate avrebbe potuto trovare la sua ragion d’essere: nel raccontare la violenza come una penetrazione continua della carne. Un rompere la barriera ed entrare nel corpo, non di cronemberghiana memoria, ma proprio come idea di azione del film. Si usano molte spade, coltelli, oggetti affilati. Persino le ferite inferte dai proiettili sono viste con fascino per l’idea di superare la barriera della pelle.

Il polonio 204 che sta mettendo in ginocchio la protagonista la trasforma gradualmente in una sorta di zombie assassina. Perde tutto: concentrazione, sangue, liquidi, lucidità, ma non il suo obiettivo. Però la regia non riesce a dare continuità a questi stati fisici. Certo, ci sono gli stimolanti che si inietta, ma il declino sembra tutt’altro che inarrestabile e lineare.

L’azione è ben coreografata e si svolge con chiarezza. Forse eccessiva, tanto che spesso si perde la brutalità, lasciando il posto all’estetica dei movimenti puliti. Cedric Nicolas-Troyan se ne accorge e cerca di sporcare le immagini, ma lo fa con espedienti che rompono l’immedesimazione. Ci sono fiotti di sangue che finiscono sull’obiettivo ma scompaiono sfumando magicamente nella stessa inquadratura senza stacco.

Le spade e i coltelli si conficcano nel corpo. Non sempre però gli effetti speciali sono funzionali. Verso metà film un personaggio viene infilzato dal mento al naso con un coltello. La punta emerge dalla faccia, ma si muove, oscilla leggermente, indipendentemente dal manico. Se dobbiamo accorgerci di un effetto digitale, allora meglio alludere, usare sintesi per immagini, che rovinare così il crescendo di coinvolgimento. 

Kate fatica a sfruttare anche la sua ottima fotografia. Le strade del Giappone, in particolare quelle di Osaka, sono umide e appiccicose. Immerse nella notte brillano solo delle insegne e delle luci al neon. Solo in alcuni sprazzi si riesce a riconoscere un’estetica quasi da film anime, dove gli assassini si muovono sui tetti in silhouette, sullo sfondo le insegne luminose con volti o disegni. Manca però il senso della misura e del buon gusto. Durante una morte centrale per il film, in un palazzo adiacente al luogo dell’azione vediamo i contorni luminosi di un Maneki Neko. Il gatto della fortuna. Che muove la zampa in segno di saluto (o di richiamo). L’attenzione si sposta su quello, cercando magari di trovare un significato, e perdendo ancora una volta l’aggancio con la storia.

Se fossimo a scuola, Kate sarebbe il compito dello studente diligente. Un tema fatto per giocare sicuro, seguendo passo passo le istruzioni date dall’insegnante per arrivare alla sufficienza. E in parte ce la farebbe anche, se non fosse che l’alunno ha palesemente copiato dai suoi compagni di classe. 

È una pericolosa deriva dell’action questa. Quella di limitarsi a fare le cose per bene in un’epoca in cui tra effetti speciali e bravi stunt-man le difficoltà nelle scene di combattimento sono molto appianate. E soprattutto quella di vergognarsi della sua vocazione, cercando sempre di inserire una storia involuta che viene portata avanti sempre di fronte a un tavolino o durante una chiamata telefonica. Mai attraverso i pugni, mai con la sofferenza. Kate cambia con le parole, mai con le azioni, e per questo verrà dimenticata presto.

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