Kafka a Teheran, la recensione

Con una scrittura eccezionale Kafka a Teheran unisce 9 quadri separati creando un punto di vista specifico e universale al tempo stesso

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Kafka a Teheran, il film al cinema dal 5 ottobre

È impressionante la qualità della scrittura di molto del cinema che è uscito e continua a uscire dall’Iran negli ultimi 12 anni. Non sono solo i grandi autori (che c’erano anche decenni fa) ma proprio la qualità media ad essere incredibilmente alta. Prima ancora che la regia, sempre molto attenta, educata, rigorosa come poche oggi e rispettosa, è la maniera in cui questi film sono scritti che impressiona tantissimo. 

E impressiona da morire Kafka a Teheran, in cui 9 storie diverse si susseguono in 9 quadri che riguardano 9 persone diverse in dialogo con un’autorità che non vediamo. Sono messi in fila dal più giovane (un neonato al quale il padre vorrebbe dare un nome che non è consentito) al più vecchio (una signora a cui la polizia ha confiscato il cagnolino). Sono 9 pianisequenza con camera fissa e inquadrature scelte benissimo, in cui 9 attori dialogano con qualcuno fuori dal quadro. Non tutti sono recitati bene e ogni tanto si avverte che il film è stato realizzato molto in fretta (solo 7 i giorni di riprese, follia!), ma lo stesso questo è un film di eccezionale presa e clamorosa efficacia.

I più riusciti tra questi segmenti sono proprio messi in scena con una capacità di cogliere il valore che l’immagine può dare a quel dialogo stupefacente (l’episodio della bambina che balla, come fosse un affronto, quello dell’uomo tatuato), nel però complesso è la maniera in cui queste storie paradossali, che vengono dall’esperienza diretta dei due registi del film o di persone che conoscono, parlano non tanto delle stupidità del regime ma proprio della maniera in cui quel clima peggiori le persone, a costituire il livello di lettura più sottile (il clamoroso segmento della ragazza con la preside, che con un ribaltamento mostra che tutti possono diventare peggiori, anche le vittime). Se alcuni segmenti raccontano più che altro di persone che impongono leggi ingiuste (come quello del nome) altri invece di persone che compiono piccoli soprusi per il piacere di farlo, perché possono. 

Queste che sono storie singole e particolari, spesso frutto di intrecci unici che non possono ripetersi (come quello della donna a cui hanno ritirato l’auto), vengono trasformate dal solo affiancamento in una parabola generale. Chi ha confidenza con il cinema iraniano (ma basta anche solo aver visto qualche film di Panahi o di Farhadi) ritrova subito quella maniera di dialogare e combattere con le parole tra gentilezza e frecciate, quella disputa ordinaria e per nulla intellettuale portata avanti con argomentazioni di vario tipo usate per prevaricare in qualche maniera (il titolo internazionale, Terrestrial Verses, è più chiaro nello spiegare l'origine di questo tipo di dialoghi). In più c’è però qualcosa di così cinematografico e così impensabile in qualsiasi altra arte che è l’unione di questi intrecci ai luoghi così banali e simili a quelli che sì trovano in tutto il mondo, illuminati con la classica luce naturalista iraniana, che danno a tutto un valore universale.

A seguito della realizzazione senza autorizzazione del film e poi della sua presentazione all'ultimo festival di Cannes, a uno dei due registi (Ali Asgari) una volta tornato in patria è stato confiscato il passaporto e ha ricevuto il divieto dal fare film. L'altro (Alireza Khatami) non è più tornato in Iran.

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