Kadaver, la recensione

Norvegese fino al midollo, Kadaver è un affascinante e un po' vacuo studio d'atmosfera sulla post-apocalisse

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Affidarsi agli stereotipi non è mai il modo migliore per leggere un’opera; poi ci sono film, come questo Kadaver appena uscito su Netflix, di fronte ai quali non si può fare altro che alzare la braccia in segno di resa.

Kadaver e la Norvegia

Kadaver è un film norvegese, e ha tutte le caratteristiche che con una certa superficialità viene spontaneo associare a quel Paese: è freddo, livido, distaccato, profondamente triste, un’ora e mezza di luci blu e primi piani dolenti; è la post-apocalisse vista da lassù, un mondo in rovina del quale al regista Jarand Herdal interessa descrivere soprattutto gli abitanti, i rimasugli di umanità, i brandelli di una società che si è sgretolata sotto le bombe e lotta disperatamente per trovare un modo, e un motivo, per andare avanti.

Il viaggio allucinante è visto tutto dagli occhi di Leonora (Gitte Witt) e della sua famiglia, composta dal marito Jacob (Thomas Gullestad) e dalla figlia Alice (Tuva Olivia Remman), un nome che fa venire in mente tane di bianconiglio e paesi delle meraviglie; i tre vivono invece in una non meglio specificata città norvegese, un non meglio specificato numero di anni dopo che le bombe atomiche sono cadute sul mondo e hanno distrutto tutto quanto – di più non chiedeteci a riguardo, perché il film non solo non lo dice ma se ne frega attivamente di costruire un contesto più complesso di “la civiltà è collassata”.

Kadaver madre figlia

Kadaver e la carestia

Curiosamente in un mondo post-atomico, il più grande problema non sono le radiazioni o gli scarafaggi mutanti alti due metri, ma qualcosa di molto più basilare: il cibo. Il mondo di Kadaver è un mondo che ha fame, e nel quale ogni azione è in realtà reazione alla necessità di mettere qualcosa sotto i denti. È così che la famiglia felice casca nella più evidente delle trappole, tesa da un tizio di nome Mathias, che vive con la sua comunità (o “famiglia” come la chiama lui) in un immenso albergo di lusso, e gira per le strade della città a vendere biglietti per uno spettacolo teatrale concepito e organizzato da lui stesso. Prima dell’apocalisse Leonora era un’attrice, e la promessa di un pasto ad accompagnare la visione dello show convince i tre a farsi fregare e comprare i biglietti dorati per la fabbrica di cioccolato di Mathias.

Ovviamente l’hotel non è quello che sembra, perché Kadaver è anche un film horror: ha l’ambientazione giusta, una chiara divisione tra buoni e cattivi, e pure l’idea brillante di fondere la rappresentazione teatrale di Mathias con la realtà. Lo show, spiega Mathias, non si svolge su un palco, ma in giro per tutto l’hotel, una sorta di teatro diffuso nel quale chiunque può scegliere quale personaggio seguire; l’unica regola è non togliersi mai la maschera, riservata agli spettatori e utile a distinguerli dagli attori.

Kadaver gente

Disagio, urla lancinanti e ansia generalizzata

In teoria sarebbe una bella tavola apparecchiata per un classico slasher, in realtà Kadaver ci va giù relativamente leggero con la morte e la violenza, preferendo affidare il suo impatto alla costante sensazione di disagio che permea ogni momento nel quale Leonora vaga per l’hotel in cerca della figlia sparita (ovviamente). Il film diventa così più un viaggio di scoperta della realtà parallela concepita da Mathias, con pochissima azione vera e molti sguardi orripilati, urla lancinanti e ansia generalizzata.

E la fortuna di Kadaver è che tutto l’impianto audiovisivo funziona alla perfezione: leggerissimo e anche un po’ vacuo, con molte meno cose da dire di quelle che promette all’inizio, riesce comunque a intrattenere con la pura forza delle immagini, dei contrasti cromatici e del viso perennemente trasfigurato di Gitte Witt. Certo, ci sono anche dei messaggi, delle riflessioni, una morale, tutte parecchio classiche (o già sentite) e soprattutto che si vedono arrivare da chilometri di distanza; in altre parole, se Kadaver voleva essere un horror filosofico e high concept ha un po’ fallito il suo obiettivo, puntando più in alto di quanto si potesse permettere. Come studio d’atmosfera, però, merita per lo meno una visione.

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