Jurassic World: Il dominio, la recensione

La saga cambia ancora tono, si adegua alla grande tensione del secondo capitolo e cerca di ritrovare lo svolgimento dell'originale del 1993

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
La recensione di Jurassic World: Il dominio, in uscita il 2 giugno al cinema

Nonostante un successo strepitoso, il franchise di Jurassic World fa una gran fatica a trovare coerenza, a stabilire un’identità che passi per un’idea di cinema precisa, e così la cambia di continuo come cambia di continuo toni e modelli dei suoi protagonisti. Non è l’assurdo “vale tutto” di Fast & Furious, né la precisa costruzione delle saghe di supereroi, non è il mondo dei franchise tratti da romanzi (che sembra sempre più grande delle singole storie che seguiamo) ma semmai una versione in continuo aggiornamento della medesima mitologia fatta di tensione e di mostri grandi e pericolosi contro esseri umani più o meno indifesi. Dopo un primo capitolo che riportava indietro di anni e anni i ruoli e i rapporti tra uomini e donne nel cinema d’azione (indietro fino a raggiungere gli standard dei paesi in cui si staccano più biglietti), e un secondo diretto da J.A. Bayona molto più centrato sul piacere della tensione, per questo epilogo Colin Trevorrow dirige con standard di ruoli aggiornati e un’adesione molto maggiore al modello originale di Steven Spielberg.

Certo, Owen Grady, il protagonista/cowboy/domatore di dinosauri di Chris Pratt, è sempre il maschio alfa designato e la sua entrata in scena lo ribadisce, spostandolo in un’altra area (di nuovo), quella dell’America più tradizionale, a cavallo nella neve con il cappello da cowboy mentre sposta mandrie di dinosauri tenuti a bada con il lazo. L’immaginario statunitense d’esportazione che rinnova le figure classiche in tutti i sensi (anche il villain, nonostante assomigli al CEO della Apple Tim Cook, è in realtà quanto di più tradizionale possa esistere: l’industriale cinico), perché come noto oltre ai protagonisti della saga (sempre più spostati su un asse di salvataggio dei dinosauri come modo di salvare il pianeta) stavolta arrivano anche i protagonisti del primo film.

Intorno a Sam Neill (che somiglia sempre più a George Lucas), Laura Dern (che entra in scena con una Spielberg face non delle migliori) e Jeff Goldblum (che è uguale a se stesso) gira un film che li venera e si piega alla loro presenza, cucendogli intorno una storia dagli svolgimenti e dalle soluzioni simili a quelle del film originale, in uno sfruttamento della nostalgia che è sempre meno oggetti, brand, ricordi e madeleine (come nel primo Jurassic World, dove erano i prop a fare da anello di congiunzione) e sempre di più calco del primo irraggiungibile film.

Jurassic World: Il dominio allora trova la sua compiutezza quando abbraccia questa idea in pieno, cioè quando arriva sull’isola e comincia a lavorare tanto di tensione. Non c’è da stare a guardare troppo il capello ovviamente: questo film ha un’idea d’azione senza senso per la quale tutti stanno tranquilli pur se condividono gli stessi ambienti con dinosauri letali, almeno fino a che non serva alla trama che questi inizino a bramare carne umana. È tuttavia indubbio che stavolta il design del camerawork lavori molto meglio con il montaggio, come si vede in un’ottima scena d’azione in stile Bourne Ultimatum (solo con i velociraptor di mezzo). Colin Trevorrow non ha l’ambizione di creare una parabola sentimentale che dia vita alla sua tensione come nel film originale, ma semmai mette da parte la scrittura e si concentra sul fare cinema come macchina epidermica. Così la natura profonda di Jurassic Park, all’epoca alfiere della trasformazione dei film in ottovolanti di sensazioni forti, ritorna ancora più estrema.

Continua a leggere su BadTaste