Jurassic World: Il dominio, la recensione
La saga cambia ancora tono, si adegua alla grande tensione del secondo capitolo e cerca di ritrovare lo svolgimento dell'originale del 1993
Nonostante un successo strepitoso, il franchise di Jurassic World fa una gran fatica a trovare coerenza, a stabilire un’identità che passi per un’idea di cinema precisa, e così la cambia di continuo come cambia di continuo toni e modelli dei suoi protagonisti. Non è l’assurdo “vale tutto” di Fast & Furious, né la precisa costruzione delle saghe di supereroi, non è il mondo dei franchise tratti da romanzi (che sembra sempre più grande delle singole storie che seguiamo) ma semmai una versione in continuo aggiornamento della medesima mitologia fatta di tensione e di mostri grandi e pericolosi contro esseri umani più o meno indifesi. Dopo un primo capitolo che riportava indietro di anni e anni i ruoli e i rapporti tra uomini e donne nel cinema d’azione (indietro fino a raggiungere gli standard dei paesi in cui si staccano più biglietti), e un secondo diretto da J.A. Bayona molto più centrato sul piacere della tensione, per questo epilogo Colin Trevorrow dirige con standard di ruoli aggiornati e un’adesione molto maggiore al modello originale di Steven Spielberg.
Intorno a Sam Neill (che somiglia sempre più a George Lucas), Laura Dern (che entra in scena con una Spielberg face non delle migliori) e Jeff Goldblum (che è uguale a se stesso) gira un film che li venera e si piega alla loro presenza, cucendogli intorno una storia dagli svolgimenti e dalle soluzioni simili a quelle del film originale, in uno sfruttamento della nostalgia che è sempre meno oggetti, brand, ricordi e madeleine (come nel primo Jurassic World, dove erano i prop a fare da anello di congiunzione) e sempre di più calco del primo irraggiungibile film.