Jupiter - Il destino dell'universo, la recensione
Nelle ambizioni di Jupiter c'è l'idea di creare un grande franchise originale, per farlo i Wachowski hanno pescato nel cinema degli anni '80 e nella favola classica
La storia è quella di una ragazza che pulisce i cessi (letteralmente) figlia di una famiglia immigrata in America che di colpo scopre di essere al centro di una trama intergalattica. Come Labyrinth o Starfighter una persona normale, dalla vita più che ordinaria scopre tutto insieme una nuova realtà e, senza nemmeno cambiarsi, viene trasportata in un altro mondo (o nello spazio) per vivere la grande avventura in cui scoprirà d'essere più di quel che non credeva (come pure avviene in Tron). In questo i Wachowski non si sono risparmiati, il mondo interstellare da loro creato, in cui un'antichissima e nobile famiglia possiede pianeti e galassie da cui estrae linfa vitale (ritorna il tema della razza umana "coltivata"), è pieno di dettagli, di tecnologie inventate, di meccanismi burocratici e ha una mitologia umano-animale tutta sua (addirittura rispolverano i mostri-servitori).
Se però si dovesse individuare un elemento che segna la distanza tra Jupiter e le grandi storie moderne del cinema d'intrattenimento sarebbe la protagonista. Se i Wachowski mettono al centro di tutto una ragazza, come molta narrativa per il cinema contemporanea, lo fanno però con un ruolo che non è lo stesso di Bella, Katniss e le altre. Jupiter è il più classico dei motori immobili, scatena tutti gli eventi in virtù di chi è e non per quello che fa, non è artefice del proprio destino, anzi, è la più classica delle damigelle continuamente salvate dal cavaliere (Channing Tatum). In questo senso il film non parla di lei, non gira intorno ad un suo conflitto interiore o a temi e idee proprie del suo mondo, quanto a quelle del mondo del protagonista maschile (un alieno mezzo uomo mezzo cane che ha lasciato la guardia imperiale ed è diventato mercenario).