Jungle Cruise, la recensione

Pieno di avventura e capace di centrare benissimo tutto quel che serve per il genere, Jungle Cruise è una delizia

Critico e giornalista cinematografico


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Interpreti giusti, trama giusta, riferimenti giusti, colonna sonora giusta, ironia giusta e azione giusta: con Jungle Cruise la Disney sembra aver ritrovato la formula perfetta di La maledizione della prima Luna e averla data ad un regista da sempre innamorato di Indiana Jones. Il risultato è un film avventuroso e bambinesco nel senso migliore del termine, in cui sembra che nemmeno una virgola sia fuori posto, nemmeno un’esagerazione sia esagerata davvero. Jungle Cruise è una gioia: ha un’idea alta di avventura e sa declinarla in un film per tutti.

Anche questo film come Pirati dei Caraibi prende l’avvio da un’attrazione dei parchi Disney (cosa che rimane lo spunto più assurdo per un film, eppure…) attorno a cui costruisce una storia, una mitologia e un mondo avventuroso, fatto di maledizioni, cattivi e luoghi esotici, niente che il cinema hollywoodiano non tenti già di fare in altri duemila franchise, solo che la combinazione di Dwayne Johnson, Emily Blunt e Jaume Collet-Serra alla regia crea un’alchimia perfetta, che mentre guarda a Pirati dei Caraibi si ricorda bene come dirige Spielberg.

È infatti evidente fin da subito che Jaume Collet-Serra sa che se vuoi fare cinema per ragazzi allora devi raccontare tutto con le immagini e non con le parole. Fin dalla prima scena capiamo che nella grande assemblea di uomini, quello che parla non ha scritto il discorso che sta leggendo, e che è invece una donna tra il pubblico ad averlo fatto, perché una donna in quel mondo (l’Inghilterra del 1916) non può stare in prima linea. Nessuno lo dice, lo capiamo da come sono inquadrati, dal fatto che c’è una platea di soli uomini e lei in balconata, dalla determinazione di lei e le esitazioni di lui e da come lei pronunci il discorso sottovoce a memoria. Nella scena successiva Emily Blunt ruba un artefatto dall’archivio e quando viene scoperta suo malgrado fa un’uscita di scena spettacolare con una colonna sonora che strizza l’occhio a Indiana Jones. A questo punto, onestamente, è difficile non essere stati comprati dal film.

Con quell’artefatto partirà alla ricerca di una pianta miracolosa sul Rio delle Amazzoni a bordo dell’imbarcazione di un capitano cialtrone ma esperto (la fuga dal porto è un altro pezzo da novanta, su e giù dalla barca tra i tornanti del fiume, capace di comprarsi tutta quella parte di pubblico che ancora non era salita sul treno del film).

Con dei finti nazisti a fare da cattivi (Jesse Plemons, figlio del kaiser Francesco Guglielmo, che vuole quella stessa pianta miracolosa per vincere la prima guerra mondiale), Jungle Cruise completa il cerchio e dichiara le sue ispirazioni spielberghiane, sebbene Indiana Jones puntava a mettere tutto in un museo e questi protagonisti hanno i musei come nemici.

Nella seconda parte poi maledizioni che uniscono i personaggi ai luoghi, villain condannati da secoli e poi la Luna che svela qualcosa di magico daranno la spallata alla saga con Johnny Depp. Sono tutte aderenze smaccate che impediscono al film di contaminarsi anche di alto. Verso la fine del viaggio infatti un trucco sbloccherà una nuova area prima non visibile, rubando ai videogiochi come Uncharted il senso di stupore e ricompensa per aver raggiunto un obiettivo e aver ricevuto in cambio un nuovo mondo da esplorare.
Addirittura anche il protagonismo degli interpreti è marginalizzato e messo al servizio del film. Specialmente di Dwayne Johnson è qui usato al meglio e mai portato a mostrare il fisico ma sempre preso in grandi battibecchi con una calzante Emily Blunt (tanto non riusciva ad essere Mary Poppins in quel sequel, quanto qui riesce ad essere una versione eccitata e piena di idee di un’avventuriera).

Il film gira così bene (anche se Emily Blunt è un po’ legnosa nell’azione e non sa nascondere gli aiuti sul set e quelli digitali) che la Disney si permette anche di sconfinare in una visione moderna degli equilibri di genere (c’è un fratello che si comporta come solitamente in questo tipo di film facevano le sorelle e una sorella che si comporta come toccava una volta ai fratelli). E qui, per la prima volta, in un grande film Disney un personaggio afferma apertamente di essere omosessuale. Certo, non arriva a usare proprio il termine “gay”, ma in un dialogo dedicato alla cosa dice che rispetto alle donne il suo interesse “è felicemente altrove”. Il massimo a cui la Disney può arrivare. Oggi.

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