Julie and the Phantoms (prima stagione): la recensione

Quando il regista di High School Musical adatta una serie per ragazzi brasiliana il risultato è Julie and the Phantoms

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Julie and the Phantoms (prima stagione): la recensione

Cosa succede quando il regista di alcuni dei più famosi film musical di Disney Channel incontra una premessa tratta da una serie per ragazzi brasiliana? Un'esplosione di zucchero e canzoni sulla fiducia in se stessi. Che è qualcosa che potrebbe benissimo indisporre qualunque spettatore, soprattutto quelli che non sono il target di Julie and the Phantoms, eppure è davvero difficile parlar male di questa serie. Così leggera, così rassicurante, così ingenua e consapevole di esserlo da far abbassare qualunque difesa critica, tanto che alla fine non si potrà fare a meno di volerle un po' di bene.

La serie è il remake di uno show brasiliano del 2011 intitolato Julie e os Fantasmas, ed è prodotta da Kenny Ortega. Una carriera da coreografo in alcuni classici degli anni '80, Ortega è, per quel che ci interessa qui, soprattutto il regista delle trilogie disneyane di High School Musical e Descendants. Nella serie Netflix trapianta quelle location scolastiche, quell'energia giovanile, quel gusto per la leggerezza colorata e una storia all'insegna dei buoni sentimenti.

La storia è quella di Julie, una ragazza che ha perso la passione per la musica dopo la morte della madre. Guardacaso, a casa sua si manifestano tre fantasmi di ragazzi morti venticinque anni prima, tutti membri della stessa band. Julie è l'unica che può vederli, anche se poi scopriremo che tutti gli altri potranno vederli solo quando suonano la loro musica. Potreste pensare banalmente che grazie a loro lei ritrovi il piacere per il canto e la musica, continuando a inseguire i propri sogni sullo sfondo delle sue fantasie romantiche. E avreste ragione.

La serie non ha nulla di vagamente sottile o elaborato. Come fosse una soap dell'America Latina, a un certo punto un personaggio parlerà da solo ad alta voce delle sue preoccupazioni per farle capire anche a noi. Nessuno si interroga razionalmente sul fatto che una ragazzina abbia a disposizione degli ologrammi per i propri concerti (lei giustifica così tutto e a tutti va bene, come in una serie majokko). I dialoghi sono molto costruiti, i personaggi caricati, le regole con cui funziona questo aldilà abbastanza strane. È quel tipo di show in cui qualcuno scuote la testa sorridendo con aria sognante in direzione di una ragazza che improvvisa una canzone con un arrangiamento completo.

Sembrerebbe davvero troppo, e per qualcuno lo sarà, ma Julie and the Phantoms riesce ad azzeccare quella formula leggerissima – di cui forse abbiamo bisogno in questo momento – che ribalta tutte queste mancanze in elementi caratteristici. Ogni personaggio, soprattutto i tre della boyband, porta con sé una sensibilità particolare, senza doppi fini, rassicurante. I personaggi antipatici non lo saranno mai davvero. Perfino le apparizioni del villain della serie, interpretato da Cheyenne Jackson, sono tra i momenti più gustosi della stagione (le canzoni dei cattivi hanno sempre una marcia in più). C'è il tema dell'omosessualità che è integrato in modo fluido nella storia, dedicandogli il giusto accenno senza che prenda il sopravvento.

Il pop della serie è piacevole, molto orecchiabile, trascinante come ci si aspetta che sia. Magari non saranno canzoni che andremo a ripescare, ma sono momenti che non annoiano mai. Julie and the Phantoms intercetta quel bisogno di leggerezza, quella necessità di arrendersi ai buoni sentimenti, di cui abbiamo bisogno. La stagione si chiude su un finale aperto e, sinceramente, la voglia di vedere un seguito c'è.

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