Judy, la recensione
È il potere di Hollywood il vero protagonista di Judy, a parte la pietà ovviamente. Tonnellate di pietà
JUDY, DI RUPERT GOLD: LA RECENSIONE
Quella di Judy è la storia di una vittima, non ci sono dubbi. Non una vittima dei propri demoni né una vittima di genitori violenti o di un marito spietato, bensì una vittima dello showbusiness. È espresso con una chiarezza inequivocabile nei flashback in cui, sul set di Il Mago di Oz, viene rimessa in riga, educata e inquadrata da Luis B. Mayer. In quelle scene il boss e fondatore della Metro Goldwin Mayer sembra un mangiafuoco onnipotente, sembra il suo creatore benevolo che le impone con dolcezza il proprio volere, un gigante meschino che dà l’impressione in ogni momento di poterla fisicamente distruggere, come se lei fosse un robot terrorizzato dal fatto che lui possa in ogni momento disattivarla.
È infatti proprio in un film come questo che si respira la fierezza del cinema americano (anche se il film è a produzione britannica), non in quelli che celebrano Hollywood ma in quelli la temono. Judy Garland è infatti la storia di Hollywood, è un'attrice che quella storia l’ha interpretata in È nata una stella. E qui c’è tutta la potenza distruttiva di Hollywood nel suo periodo d’oro, il potere di definire vite e quindi di rovinarle.
Ovviamente lei è la vittima tout court, e il film non resiste all’effetto-pietà. Danneggiata da giovane e irrecuperabile da grande, Renée Zellweger interpreta quest'acquisita fragilità ma una volta assodata e stabilità il film non va altrove, la rappresenta fragile e basta, non riesce ad usare quella fragilità per raccontare altro. Il lavoro migliore allora è quello fatto sul palco, con le canzoni e la loro interpretazione forte e intensa. Rupert Gold ne fa buon uso bene perché piazza quei momenti quando pensiamo che Judy sia spompata e fatichiamo a capire o a credere al suo successo. Di colpo invece sul palco Renée Zellweger ci convince e ci ricorda come mai la ammirino.
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