Joy, la recensione

Così pieno dello stile di David O. Russell da essere fine a se stesso, Joy è un concentrato di grottesco che pare esistere solo per ammirare i suoi attori

Critico e giornalista cinematografico


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Joy
Ci sono sempre delle famiglie nei film di David O. Russell, molto spesso sono quelle naturali, più raramente quelle nuove, costituite da conoscenti che si stringono così forte da sembrare parenti. Le famiglie, formate da persone che chiunque altro adorerebbe odiare mentre David O. Russell riesce a guardare con affetto senza negarne mai il lato bastardo, sono il nucleo principale attraverso il quale questo regista legge l’incrociarsi di comico e drammatico, di grottesco e infelice nell’esistenza umana, ma in senso più filmico la famiglia è anche l’unità base delle sue inquadrature, che rifiutano il campo/controcampo e preferiscono tenere quante più persone in scena contemporaneamente per farle interagire. Joy non fa eccezione, anzi eleva alla massima potenza questo principio, raccontando di una donna che per emergere deve lottare contro una famiglia che sembra accompagnarla in ogni fotogramma e che intende aiutarla mettendoci tutto l’egoismo possibile.

È la storia (più o meno vera) delle tribolazioni attraverso le quali è dovuta passare Joy Mangano, inventrice del mocio che si strizza senza toccarlo, ma soprattutto emblema di un modo di fare impresa femminile e casalingo, venditrice televisiva e indefessa lottatrice. C’è una sorella che pare remare contro, come in The Fighter, e un padre amorevole ma incomprensibile come in Il lato positivo, più una banda di truffatori come in American Hustle, e questo accade perché queste sono le pedine base del cinema di David O. Russell: i legami e la mistificazione, le ancore che la vita ci ha consegnato senza che potessimo sceglierle e i ruoli che dobbiamo interpretare per andare avanti.

Questo cinema fatto di recitazione più che di ogni altra componente vive solo muovendosi, respira solo nelle interazioni

Questo cinema fatto di recitazione più che di ogni altra componente vive solo muovendosi, respira solo nelle interazioni. Joy riesce a trovare un senso solo nel conflitto tra attori, vorrebbe abbracciare tutti i suoi protagonisti in ognuna delle sue inquadrature composte per contenerne il maggior numero. Eppure sembra anche aver passato il confine, quello oltre il quale tutto il buono che lo stile di David O. Russell ha da regalare sfocia nel kitsch. Non diversamente dalle soap opera che guarda la madre di Joy (girate appositamente con grande spirito), anche il film che vediamo utilizza tinte fortissime, teatralizza ogni personaggio estremizzandone le caratteristiche base. Il grande movimento che anima ogni scena grazie all’uso parco dei primi piani e alla distanza che il regista pone sempre tra la videocamera e i personaggi, è la molla che tiene incollati allo schermo (assieme ad una colonna sonora che deve molto alle trovate di Paul Thomas Anderson in Ubriaco d'amore) ma ciò che accade non sempre ne è all’altezza.

L’accanimento iperbolico della sorte e della famiglia contro Joy è funzionale a questa storia di passione e rinascita, è il negativo che serve ad affermare il positivo, cioè la tenacia di una donna e più in grande l’indomabile spirito di un genere (quello femminile) che deve farsi strada faticando il doppio degli uomini. Eppure a tratti si ha la netta impressione che quest’opera esista più come pretesto per veder recitare i suoi attori che per raccontare una storia. In questi quadri dalla fotografia curatissima e dai movimenti di macchina impeccabili (quello che scopre l’ex marito cantante nel sotterraneo della casa è di rara intelligenza), il grottesco e l’iperbolico sembrano non essere supportati, sembrano esistere solo per l’esagerazione che comportano e non per il senso a cui dovrebbero essere gli unici a poter giungere. Una volta tanto non basta l’eccezionale lavoro fatto su e con gli attori per sostenere un film che mostra un accanimento neorealista della società contro i personaggi e un amore eccessivo per i corpi inquadrati.

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