Jolt, la recensione

Nel più classico dei mondi costruiti per un franchise Jolt cerca di inserire una storia (più o meno) originale ma non ha la protagonista giusta

Critico e giornalista cinematografico


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Jolt, la recensione

Se un fucile entra in scena prima o poi dovrà sparare. Se ci viene presentato un personaggio che, per la sua storia personale, è praticamente un’arma, prima o poi dovrà essere innescato. Per questo crediamo poco alla storia d’amore che, ad inizio film, consente a Lindy di smettere di picchiare tutti e vivere una vita felice.
Lei ha un disturbo della personalità che, associato alle medicine che ha preso per tutta la vita e all’addestramento militare che ha ricevuto, la rende così pericolosa ed incontrollabile da doversi autoinfliggere una forma lieve di elettroshock ogni qualvolta sente montare la rabbia e calmarsi. A triggerare la rabbia può essere una cameriera fastidiosa, qualcuno che mangia rumorosamente sulla metro o anche semplicemente una persona che non le consente di fare quel che vorrebbe. È il protagonista di Un giorno di ordinaria follia addestrato e violentissimo.

Una storia d’amore sembra, per l’appunto, l’unica vera cura che la possa far funzionare in società fino a che, inesorabilmente, la trama non gliela sottrae, scatenandola e dandole qualcosa su cui investigare, qualcuno da cercare, una vendetta da trovare.
Non siamo lontani dallo schema base di Io vi troverò, cioè la maniera più rapida per giungere alla carneficina seriale. A Lindy viene data una motivazione e in più rispetto a Liam Neeson anche una ragione per essere una macchina di morte inarrestabile. E anche l’investigazione procede al livello più basilare della deduzione, andando di aiutante in aiutante e ricevendo informazioni sulla prossima tappa.

Nelle mani di Tanya Wexler Jolt non diventa né Lucy Upgrade ma assume una patina molto femminista, in cui la donna è sempre sottovalutata da tutti, sempre considerata meno degli altri e porta la sua vendetta contro un esercito di uomini. Il plotone di cattivi che piano piano abbatte non è fatto mai da donne ma solo da uomini, declinazioni diverse di modelli machisti che concepiscono le donne come oggetti da usare e sfruttare e che vengono ripagati con la moneta della violenza (e della morte). C’è una specie di morale sottile che dovrebbe essere in secondo piano e invece è sempre sbattuta in faccia, addirittura nelle battute.

Purtroppo Jolt spiega bene come mai Kate Beckinsale non è mai diventata Milla Jovovich, nonostante sia stata al centro della fortunata serie Underworld che si è svolta più o meno negli stessi anni di quella di Resident Evil. Non è in grado di vendere l’azione e mentre negli anni Milla Jovovich è sempre migliorata, aumentando gli stunt fatti in prima persona, qui Kate Beckinsale si sporca le mani il meno possibile e quando lo fa si notano i movimenti goffi. L’interesse nel costruire il suo personaggio non va nella direzione di essere un granello che sconvolge l’ordine delle gerarchie tra sessi, ma nel presentarsi bene. Una spallina cadente, il volto mai deturpato da sabbia, detriti o tagli, inquadrature generosissima e patinate ed espressioni da cerbiattona mentre la controfigura fa tutto il resto.

Il cinema d’azione non è più così e Jolt sembra uscito dal passato, convinto di una coolness che non ha mai e che dovrebbe arrivargli dai neon e dagli outfit molto curati. Anche la maniera molto blanda e frettolosa con la quale costruisce una pseudo-mitologia per possibili sequel è abbastanza risibile. Lei, l’eroina con il super potere di arrabbiarsi e cambiare umore repentinamente (uno degli stereotipi machisti più odiosi che qui è cavalcato involontariamente), sembra più adatta ad entrare nella galleria dei progetti originali da piattaforma con intenti da franchise che tuttavia non sono mai decollati come Bright o Project Power.

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