Joe Bell, la recensione
Joe Bell di Reinaldo Marcus Green vorrebbe parlare di bullismo e discriminazione ma, a conti fatti, non è che un ritratto egoista e mai profondo di chi prova un senso di colpa
Esiste un confine, neanche troppo sottile, che divide l’umile e tormentata riflessione di chi ha preso parte alla sofferenza di qualcun altro e l’invece celata glorificazione (con tanto di morboso autocompiacimento) del senso di colpa. Un senso di colpa che, una volta assoltosi, non lascia dietro di sé assolutamente niente se non un pretestuoso perdono. Ispirato alla storia vera di un uomo che ha percorso a piedi l’America per parlare del bullismo di cui è stato vittima il figlio gay, Joe Bell di Reinaldo Marcus Green compie esattamente, con ingenuità o per ignoranza, quel discorso egoista, rimandando l’attenzione non alla vittima (il figlio) ma al vittimista (il padre).
Il punto di vista che adotta il film è quello del genitore, appunto Joe Bell (un Mark Wahlberg in versione Into the Wild) e su di lui si concentra per costruire aspettative su ciò che accadrà: partiamo dalla fine, quando Joe è già in cammino, e torniamo indietro a quando invece la sua tolleranza verso la diversità del figlio (Reid Miller) era tutt’altro che accettata. È proprio la domanda “cosa porterà il genitore a cambiare idea?” ad essere il tirante narrativo. E va anche bene così, anzi il meccanismo funziona: Joe non è mai totalmente tollerante o intollerante, è sempre in preda a un conflitto sottile, per cui ci si chiede continuamente a che livello di accettazione si trovi davvero. Di pari passo, il film costruisce per frammenti la sofferenza del figlio e la sua relazione con Joe in modo altrettanto sfumato. Poi però, dopo il colpo di scena centrale, tutti gli equilibri di focus e di tema vanno a picco inesorabilmente.
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