[Cannes 66] Jimmy P. (Psychotherapy of a plains indian), la recensione

Il nuovo film di Desplechin delude, rinnega tutte le caratteristiche migliori del regista senza trovarne di nuove che siano all'altezza. Un film irriconoscibile...

Critico e giornalista cinematografico


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Il motivo per il quale gran parte del pubblico cinefilo italiano vuol bene ad Arnaud Desplechin si riassume in due film arrivati da noi: I re e le regine e Racconto di Natale. Due opere corali che sembrano rimpiangere con orgoglio e compostezza il cinema di Truffaut, quello delle storie raccontate con calma e vigore, con spiccata adesione sentimentale e spietato intervento sull'immagine. Due esempi di cinema straordinario di questi anni.

Tutto ciò purtroppo non lo si trova in Jimmy P., primo film americano dell'autore francese, tratto da libro "Psychotherapy of a plains indian" di Georges Devereux e centrato sulla storia vera dell'analisi che l'antropologo fece ad un indiano americano, reduce dalla seconda guerra mondiale con diversi traumi.

Lo spunto è il pionierismo di Devereux, e di chi richiese la sua consulenza, nell'aver fuso le proprie conoscenze etnografiche (era un grande appassionato di comunità native americane) con l'analisi psicologica, per comprendere come persone diverse provenienti da culture diverse reagiscano diversamente e siano soggetti a dinamiche psichiche diverse.

Tutto questo è una materia che Desplechin cerca di rendere narrativa, introducendo lentamente la storia della vita di Jimmy Picard (attraverso il suo raccontare i propri ricordi con un crescente senso di completamento del quadro emotivo) e narrando contemporaneamente lo svolgersi presente di quella del medico. Il primo in questo modo ritrova la possibilità di un contatto con le donne, mentre il secondo perde la propria amata.

Dovrebbe essere a questo punto Mathieu Amalric a condurre il film, il suo professor Devereux è dipinto con una maestria rara e lui gioca con tutti gli elementi più sottili della recitazione (mentre Benicio Del Toro in maniera più scontata fa lo squilibrato all'americana). Ma anche gli sforzi dell'eccelso attore francese cadono nel vuoto, rimanendo uno spettacolo (fantastico) a sè.

Nonostante Jimmy P. appaia in tutto e per tutto un film modellato su Il ragazzo selvaggio di Truffaut non fonde mai con ugual efficacia la procedura medica (tratta dai resoconti delle sedute) e l'empatia, ovvero una forma apparentemente gelida e il suo ripieno caldo e commovente.

Questo misterioso equilibrio, che nel film di Truffaut scatena uno straniamento unico e inspiegabile, è un miraggio. Jimmy P. è cinema gelido che ricostruisce senza trovare una chiave realmente umana, che narra poco e male, azzeccando il tiro solo quando ruba soluzioni dai maestri del passato (la lettura di una lettera che avviene nella forma della confessione frontale alla videocamera da parte di chi l'ha scritta, come in Bergman).

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