Jersey Boys, la recensione

Troppo didascalico l'ultimo lavoro di Eastwood, che spicca il volo solo in corrispondenza di alcuni numeri musicali...

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"Can't take my eyes off you", non posso toglierti gli occhi di dosso: questo il titolo del più celebre brano cantato da Frankie Valli, frontman del gruppo The Four Seasons che, tra la fine degli anni '50 e gli anni '70, spopolò grazie alle proprie sonorità vellutate e a melodie piacevolmente orecchiabili. Sarebbe stato bello poter apporre il titolo del brano come tagline dell'ultimo lavoro di Clint Eastwood che, prendendo spunto da un musical biografico trionfatore ai Tony Awards del 2006, ripercorre la nascita, l'ascesa e la crisi della band.

Purtroppo, invece, il film si incaglia in un pantano costellato di spiegoni superflui, incartandosi su se stesso senza mai compiere un vero e proprio balzo rispetto a un didascalismo di maniera dal sapore stantio. Peccato, perché la storia dei quattro ragazzi che dalla strada ascendono fino a diventare stelle della musica, per quanto trita e ritrita, aveva in sé un potenziale drammatico che un Eastwood più ispirato avrebbe potuto senz'altro sfruttare meglio: e non è impossibile intravedere il buono, tra una noiosa spiegazione con sguardo in camera e l'altra, specialmente nelle sequenze dedicate all'evoluzione-involuzione del rapporto tra Frankie (John Lloyd Young) e il tormentato, livoroso chitarrista Tommy DeVito (un bravissimo Vincent Piazza, già ammirato in Boardwalk Empire). Tuttavia, nemmeno la storia d'amicizia e rivalità tra i due artisti riesce a far davvero appassionare il pubblico, complice anche una regia annoiata e priva di autentici guizzi visivi.

In soccorso alla barca destinata ad affondare arriva, per fortuna, l'anima più vivace del musical originale: le canzoni dei Four Seasons, che risvegliano l'attenzione del pubblico anche grazie all'impeccabile dimestichezza dimostrata sul palco dai già citati Piazza e Lloyd Young, come anche dagli altri due componenti della band, l'introverso Nick Massi (Michael Lomenda) e l'ambizioso quanto talentuoso Bob Gaudio (Erich Bergen).

C'è anche una chicca per gli appassionati del grande Eastwood: un piccolo frammento di un western trasmesso in tv, in cui il maestro di Hollywood appare, giovanissimo, in una sorta di tributo a se stesso che ha più il sapore della nostalgia che quello di una boriosa autocelebrazione.

Insomma, una buona occasione mancata, che dimostra subito di avere ambizioni piuttosto modeste, disperdendosi in rivoli narrativi mai realmente approfonditi - uno su tutti, la trattazione schematica della triste vita familiare di Valli. Meglio accontentarsi e prendere ciò che di (molto) buono offre al pubblico: una compilation di brani accattivanti più o meno noti, che funge da spina dorsale laddove la sceneggiatura sfilacciata non riesce mai a essere all'altezza del suo compito.

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