Jem e le Holograms, la recensione

Avendo praticamente nulla in comune con la serie animata, Jem e le Holograms è la storia di una cantante di talento che cerca di emergere. Un'altra

Critico e giornalista cinematografico


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Se lo standard dei film di canto contemporanei è Pitch Perfect (cioè l’incrocio della preparazione per una grande competizione come nei film di ballo, con l’esaltazione del “talento” come nei classici in stile Saranno Famosi, una forma di romanticismo femminista e una dose massiccia di ironia) era molto difficile che un’operazione così sempliciotta e campagnola come quella di Jem e le Holograms potesse funzionare.
Non ha funzionato al boxoffice (un film Blumhouse che non ripaga il suo già esiguo budget di 5 milioni è una notizia) e non ha funzionato nemmeno come piccolo cult di nicchia. Non è piaciuto al pubblico nuovo e figuriamoci a quello che già conosceva la serie animata. E come avrebbe potuto del resto Jem e le Holograms convincere in una versione così radicalmente diversa? Come avrebbe potuto appassionare un pubblico nuovo con un’identità così debole?

La gestione della proprietà intellettuale della linea di giocattoli (poi diventata serie animata negli anni ‘80) poteva essere una buona occasione per creare un franchise, perché questa era l’intenzione vista l’assenza della nemesi storica, le Misfits, e la maniera in cui si può intuire che sarebbero state il piatto forte del secondo capitolo, ma Jon M. Chu la butta al vento per eccesso di noia. Invece che inframezzare le esibizioni musicali con una sceneggiatura brillante, una in linea con la presunta spensieratezza dell’operazione, il film tratta la storia di una ragazza arrivata al successo casualmente tramite YouTube, con un’eccessivamente pensosa gravitas, addossandole eredità paterne, difficoltà relazionali e un rapporto complesso con la celebrità.

È evidente che raccontare le contraddizioni della rappresentazione di se stessi in rete doveva essere la porta per raggiungere una generazione che sente questi temi più vicini a sè, ma come si può realmente credere ad un film che si prende così ostinatamente sul serio nonostante sia tratto da un linea di giocattoli di 30 anni fa?
Con Juliette Lewis incaricata di portare l’unico scampolo di autoironia in 120 minuti terribilmente seriosi, Jem e le Holograms sembra non aver compreso proprio quale sia il punto dei revival. Siano i Transformers o la serie come 21 Jump Street, riportare in vita con successo una proprietà intellettuale dal passato non è tanto questione di renderla moderna (lo è per definizione nel momento in cui se ne fa un film adesso), quanto di comprendere correttamente quale fosse l’elemento principale di interesse originale e mantenerlo fisso mentre tutto il resto viene adattato.

Per Jem e le Holograms il cuore da non cambiare probabilmente sarebbe potuta essere la rivalità con un gruppo femminile uguale e complementare (cioè lo scontro tra due modelli di femminilità a confronto), la risoluzione di conflitti elementari in maniere complesse e autoassolutorie, come anche l’estetica camp, esagerata e barocca (anche per l’epoca). Tutto questo invece manca al film, sostituito da blandi modernismi che si trovano in tanti film simili e anche raccontati meglio. L’unico nocciolo che la Blumhouse sembra aver considerato indispensabile, l’unico punto fermo attorno al quale hanno cambiato tutto, è stato il titolo.

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