Jean-Claude Van Johnson (prima stagione), la recensione

La nostra recensione di Jean-Claude Van Johnson, disponibile su Amazon Prime Video

Critico e giornalista cinematografico


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È tutta una questione di nomi questa serie tv. Jean-Claude Van Damme ha un’identità segreta: Jean-Claude Van Johnson. E per tutta la serie lotterà per capire il suo posto in un mondo che non riconosce più, giocando tra questi due nomi e un altro, Jean-Claude Van Varenberg, il suo nome reale (all’anagrafe).

Aperta e chiusa con la sua spaccata-simbolo questa miniserie in 6 puntate da 35 minuti l’una (poco più di 3 ore e mezza in totale) mostra Jean-Claude Van Damme in persona mettere in scena un se stesso di finzione: miliardario che “una volta era superfamoso” con tutte le tubature di casa che conducono latte di cocco invece di acqua, con le ciabatte con le sue cifre e i poster dei suoi film a tutte le pareti. È il Van Damme metacinematografico e autoironico di JCVD (il film del 2008) portato alle estreme conseguenze.

In Jean-Claude Van Johnson infatti la storia è che Van Damme è sempre stato in realtà un agente segreto, i film erano solo coperture. Andava a girare lontano dall’America come scusa per compiere una missione nei luoghi prescelti, e grazie alle sue doti di artista marziale era un’agente infallibile. Ora che ha superato i limiti d’età vuole rientrare nel giro per una questione sentimentale. Ricontatterà così l’agenzia che lo rappresentava (e che in realtà è sempre stata una società di spionaggio) per convincerli a dargli un nuovo film/missione.

In questa miniserie Amazon c’è dunque tutto il metacinema che ammicca di Ash vs Evil Dead, unito ad una serie di ironie sui luoghi comuni dei film di Van Damme, che la rendono un perfetto oggetto di nicchia, adorabile da qualsiasi fan, capace di sussurrare battute diverse a seconda del livello di conoscenza dei film di Van Damme di ogni spettatore. Ci sono dei momenti in cui Jean-Claude Van Johnson sa scherzare in maniera così sublime e per amanti che verrebbe da dare una medaglia a chi ha approvato il progetto.

Quello che fa impazzire è che ci sia solo questo! È incredibile come Jean-Claude Van Johnson, con il potenziale, lo spunto e l’ironia che sa mettere sul piatto, sia raccontato così male, sia così sconclusionato con la sua trama e anche con le singole scene. Quando non arriva un’intuizione comica folgorante le puntate macerano appresso ad una trama orizzontale molto confusa e contraddittoria, portata avanti con intrecci da poco.

Soprattutto Jean-Claude Van Johnson ha il terribile difetto di tentare di fare un po’ di azione di farla malissimo, controfigure non all’altezza, un montaggio non adeguato e una lentezza di movimenti che non solo è un insulto a Van Damme ma pure allo spettatore oggi abituato anche a Keanu Reeves e Charlize Theron che tentano di stare al passo con gli asiatici.

Quando non si mena siamo dalle parti del dramedy, Van Damme mette su la sua maschera d’occasione, recita (per davvero!) e accanto alla commedia bada sempre di affiancare un po’ dramma autocommiserevole che avrebbe anche potuto funzionare (come del resto funzionava in JCVD) se solo l’impianto che lo sorregge fosse stato più solido. Invece di episodio in episodio ci si trova davanti ad una serie di situazioni sempre più scollegate e mal amalgamate, anche se le stesse, prese singolarmente, sono spesso molto buone.

Jean-Claude Van Johnson è in buona sostanza un pitch straordinario. Raccontato in poche parole suona fantastico, ma realizzato in 6 puntate è uno stillicidio contrappuntato da buone idee abbandonate a se stesse.

Non è infatti niente male il momento in cui nel terzo episodio, il set del film che sta girando si movimenta con una rissa “non prevista”, sembra che finalmente tutto decolli, sembra che stiano mettendo in scena la parodia dei film cinesi e indonesiani in cui gli stuntmen sono pagati per prendere i colpi per davvero e alle volte capita che muoiano. Tuttavia il contorno di quella scena è così approssimativo che l’impressione è che questi collegamenti siano più frutto dello sforzo dello spettatore che della suggestione della scena.

Ci troviamo così qui a parlare di quel che Jean-Claude Van Johnson poteva essere, visti gli spunti.

Poteva essere innanzitutto una fantastica serie che rivedeva la carriera di Van Damme, visto come giochi con intelligenza con tutti gli stilemi dei suoi film. Ci sono i momenti in cui si benda per acuire gli altri sensi (ma comicamente avviene in una corsa in auto e l’esito è ancora più geniale), altri in cui tenta il colpo di Dim Mak di Senza Esclusione di Colpi e un altro in cui sembra rivivere le scene del suo film meno realistico, Timecop.

Poteva essere una fantastica serie in grado in realtà di prendere in giro Hollywood, visto come è divertente quando si mette ad inventare produzioni insensate (il set di Huck, adattamento con arti marziali di Huckleberry Finn, è da morire), o quando fa ironia sul mondo degli agenti, su quello dei sequel e sulle figure dei registi. Eppure sembra non crederci per primo, alcune delle migliori battute sullo stato dell’industria del cinema (una su Blockbuster è da segnarsela e rivendersela) sono buttate senza un seguito, senza che possano avere un senso assieme a qualche altra intuizione. Senza che facciano corpo.

Poteva infine, come detto in cima, essere davvero una serie sulla ricerca dell’identità. Va specificato “davvero” perché in realtà lo sarebbe, è quello il punto di tutto il racconto, passare attraverso i personaggi da cinema di Van Damme vecchi e nuovi, veri e inventati, fino a che fasullo e reale non si mischino in maniera inestricabile, fino a che non sia più chiaro cosa sul serio sia vero della vita di quest’attore e cosa sia finto, con una confusione creativa tale che quando vediamo una statua di Van Damme che fa la spaccata messa in una piazza di Bruxelles (e lui di persona che la lucida) per un attimo ci si chiede se non esista sul serio.

Ecco questa poteva essere davvero la versione immaginaria migliore di questa serie, quella che avrebbe calzato meglio questo tono da dramedy, la vita di Van Damme-Van Varenberg e un racconto in 6 parti tra arti marziali e finte produzioni cinematografiche, probabilmente quella che tutti avevano intenzione di realizzare ma che con quest’intreccio e questa narrazione così approssimativa rimane solo una speranza.

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