It's What's Inside, la recensione: una metafora geniale che rischia di scappare di mano

La recensione di It's What's Inside, il film diretto da Greg Jardin in cui c'è una macchina in grado di scambiare i corpi delle persone

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Come tanto cinema di genere It’s What’s Inside vive (e muore) sull’invenzione e la gestione di un’unica idea narrativa: Nightmare ha l’impossibilità di addormentarsi. It Follows l’inseguimento lento ma inesorabile. Talk to Me la mano che richiama i morti. It’s What’s Inside (che non è un horror ma ci somiglia molto) una macchina in grado di scambiare i corpi delle persone. Otto amici la usano per gioco a una festa e subito la situazione degenera, fra chi ne approfitta per tradimenti e inganni messi in atto con il corpo di qualcun altro.

Questa premessa funziona due volte all’interno di un film che vuole divertire ma anche dire qualcosa: offre un meccanismo narrativo originale, che permette di costruire tensione continuando a creare variazioni su un tema (l’impossibilità di sapere chi si ha di fronte e il brivido di essere scoperti); ed è una metafora capace di dare suggestioni e possibili letture. It’s What’s Inside è uno di quei film che possono tranquillamente essere goduti anche solo per il piacere del racconto, ma (senza mai farlo pesare) in realtà ha un sacco da dire sulla società: tramite lo scambio di corpi si parla di comunicazione tra partner, di privilegio razziale, della superficialità e invidia a cui condanna il mondo dei social network.

Se It’s What’s Inside non è perfetto è per la difficoltà oggettiva che comporta gestire questa premessa per un’ora e quaranta. Per gran parte del tempo l’aspetto dei personaggi in scena non corrisponde con la loro personalità, e siccome la memoria degli spettatori non è infinita i realizzatori sono costretti a inventarsi sempre nuovi modi per segnalare chi è che si nasconde in questo momento in quel corpo: foto pinzate addosso come un badge, riprese sovraimposte che mostrano la vera identità della persona e così via.

Anche con tutte queste precauzioni alla lunga il racconto diventa complicato da seguire, anche perché – a differenza di quanto facevano in chiave comica i nuovi Jumanji curiosamente gli scambi non attraversano mai le linee di genere: gli uomini sono sempre uomini, le donne sempre donne. Che sia per evitare l’effetto comico di quando Jack Black interpretava Karen Gillen, o per una certa “normatività”, questo porta il film a rinunciare a un elemento di riconoscimento che poteva aiutare a orientarsi meglio nel suo mondo paradossale, rendendo tutto un po’ meno dispersivo e confuso.

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