It's a Sin: la recensione

It's a Sin è una miniserie inglese dal forte impatto emotivo, che racconta il dramma dell'AIDS negli anni '80

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It's a Sin: la recensione

In principio era Queer as Folk, oggi è It's a Sin. Sono passati venti anni da quando Russell T. Davies raccontava le vite di giovani ragazzi omosessuali in quella piccola serie cult. Tornare a quella particolare sfera di intimità oggi, almeno per lui, significa fare temporalmente un passo indietro, e ambientare tutto durante gli anni '80 scanditi dalla diffusione dell'AIDS. Nel fare questa operazione, It's a Sin si trasforma sotto i nostri occhi da racconto di emancipazione e libertà sessuale in tragedia umana condivisa. Dopo Years and Years, l'autore inglese sigla un'altra miniserie dal forte impatto emotivo, carica di intimità e dolore.

Ritchie Tozer (Olly Alexander), Colin "Gladys" Morris-Jones (Callum Scott Howells) e Roscoe Babatunde (Omari Douglas) arrivano a Londra con i più classici dei sogni nel cassetto. In particolare seguiamo Ritchie, che desidera fare l'attore con disappunto della famiglia. A legarli insieme ci sarà soprattutto l'amicizia con Jill Baxter (Lydia West), anche lei aspirante attrice. Finiranno per abitare tutti nel cosiddetto Pink Palace. Nel cast figurano anche Neil Patrick Harris e Stephen Fry. Nella metropoli degli anni '80, nella piena frattura tra il thatcherismo e la ribellione giovanile, It's a Sin imbastisce un racconto di liberazione sessuale, vissuta con l'esuberanza al neon degli anni migliori. Finché non arriva l'AIDS.

Il titolo della serie richiama la canzone It's a Sin dei Pet Shop Boys, manifesto di ribellione contro la colpevolizzazione di atteggiamenti non ortodossi. E arriva così, anche in modo crudelmente ironico, a falcidiare come una "punizione" i protagonisti e le persone intorno a loro. La serie in cinque puntate, come cinque sono gli atti di una tragedia, scandisce una progressione di dolore, sospetto, negazione, paura. Rispetto ad una malattia inarrestabile che sommerge vite e sogni come la marea. E trasporta con esiti strazianti tutta la vicenda su un piano diverso, quasi una versione alternative di vite che si ritrovano con altre priorità rispetto ai loro sogni di gloria. Lo strappo tra queste due tipologie di storie è violentissimo.

Jill Baxter è ispirata al personaggio di Jill Nalder, che visse direttamente la tragedia attraverso la morte dei suoi migliori amici. Ma al di là della versione romanzata di certe vicende, It's a Sin è pesantemente radicato in una delle grandi tragedie degli anni '80. La scrittura di Russell T. Davies non cerca il pietismo fastidioso, racconta tragedie e dialoghi strazianti, ma concede alla telecamera di allontanarsi nei momenti critici. Senza nulla togliere al coinvolgimento emotivo, anzi. Nel fare questo, il ritmo stesso e la messa in scena della serie si adeguano, e dalla velocità del montaggio delle prime puntate si va verso un ritmo più lento e una fotografia più spenta.

Il tutto caricando dramma su dramma, raccontando la negazione da parte delle istituzioni, lo stigma sociale gravato da una malattia che sembra colpire solo uno specifico gruppo di persone, lo sforzo nel mantenere la propria dignità. Va da sé che It's a Sin è una visione molto difficile da sostenere, e che diventerà sempre più ardua con il passare dei minuti. Ma si tratta anche di uno sguardo intimo su una grande tragedia, che non lascerà indifferenti.

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