It's a Sin: la recensione
It's a Sin è una miniserie inglese dal forte impatto emotivo, che racconta il dramma dell'AIDS negli anni '80
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In principio era Queer as Folk, oggi è It's a Sin. Sono passati venti anni da quando Russell T. Davies raccontava le vite di giovani ragazzi omosessuali in quella piccola serie cult. Tornare a quella particolare sfera di intimità oggi, almeno per lui, significa fare temporalmente un passo indietro, e ambientare tutto durante gli anni '80 scanditi dalla diffusione dell'AIDS. Nel fare questa operazione, It's a Sin si trasforma sotto i nostri occhi da racconto di emancipazione e libertà sessuale in tragedia umana condivisa. Dopo Years and Years, l'autore inglese sigla un'altra miniserie dal forte impatto emotivo, carica di intimità e dolore.
Il titolo della serie richiama la canzone It's a Sin dei Pet Shop Boys, manifesto di ribellione contro la colpevolizzazione di atteggiamenti non ortodossi. E arriva così, anche in modo crudelmente ironico, a falcidiare come una "punizione" i protagonisti e le persone intorno a loro. La serie in cinque puntate, come cinque sono gli atti di una tragedia, scandisce una progressione di dolore, sospetto, negazione, paura. Rispetto ad una malattia inarrestabile che sommerge vite e sogni come la marea. E trasporta con esiti strazianti tutta la vicenda su un piano diverso, quasi una versione alternative di vite che si ritrovano con altre priorità rispetto ai loro sogni di gloria. Lo strappo tra queste due tipologie di storie è violentissimo.
Il tutto caricando dramma su dramma, raccontando la negazione da parte delle istituzioni, lo stigma sociale gravato da una malattia che sembra colpire solo uno specifico gruppo di persone, lo sforzo nel mantenere la propria dignità. Va da sé che It's a Sin è una visione molto difficile da sostenere, e che diventerà sempre più ardua con il passare dei minuti. Ma si tratta anche di uno sguardo intimo su una grande tragedia, che non lascerà indifferenti.