Iron Fist (seconda stagione): la recensione

Le nostre impressioni sulla seconda stagione della serie Marvel Iron Fist

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La seconda stagione di Iron Fist è nettamente superiore alla prima. Sostituito Scott Buck (lo stesso di Inhumans) come showrunner, la serie ne ha tratto un immediato giovamento a livello di chiarezza d'intenti, di intreccio, di caratterizzazioni. Difficile stabilire se il fanalino di coda, per vari motivi, tra le produzioni Marvel su Netflix, abbia trovato una ragion d'essere (quello dipenderà dalla sensibilità di ognuno), ma si può dire che sono stati fatti dei chiari passi in avanti. Migliore delle seconde stagioni di Jessica Jones e di Luke Cage, Iron Fist trascina i suoi pochi protagonisti in un'avventura più serrata, che finalmente si appoggia ad una formula più ristretta – dieci episodi invece di tredici – e funzionale alla trama. Il risultato finale è molto lontano dalla perfezione, ma non si può non rilevare un miglioramento generale.

Rispetto ai nuovi episodi di Jessica Jones e Luke Cage, Iron Fist si appoggia un po' di più a quanto accaduto in Defenders. Danny Rand è l'unico della squadra, insieme a Matt Murdock, ad avere un'identità segreta, e proprio dalla scomparsa di Daredevil muove il grande dilemma del protagonista. L'Iron Fist, figura secolare che nasce nel monastero di K'un-Lun, trova una ragion d'essere nella sfida alla Mano. Ora che la Mano non esiste più, cosa ne è di quel guerriero? Mentre il protagonista cerca di trovare una risposta a questa domanda, si rifanno sotto vecchi conflitti, questi sì legati alla prima stagione di Iron Fist. Joy, sorella di Ward e amica d'infanzia di Danny, medita vendetta. La affianca Davos, che a sua volta reclama il potere mistico per sé, non giudicando degno Danny. Nel caos di recriminazioni che ne deriva, si inserisce la scheggia impazzita rappresentata da Typhoid Mary.

Con altre aspettative, il giudizio sulla stagione sarebbe stato più freddo, ma, come detto, non si può fare a meno di rilevare fin da subito un miglioramento del prodotto. Impressione che rimarrà anche alla fine dei dieci episodi, seppur minata da alcune cadute. Danny Rand non è più quella maschera carica di difetti che era lo scorso anno: rabbioso, immaturo, pieno di sé. È stato portato avanti un netto lavoro di ripensamento del personaggio, già in parte esplorato in Defenders e in un episodio di Luke Cage. Questo è un Danny più pacato, più leggero, che cerca la strada della conciliazione e che finalmente ha smesso di rivolgersi a se stesso come "l'immortale Iron Fist". Eppure, nel momento in cui diventa più moderato, perde anche tutto l'interesse che potremmo provare nei suoi confronti. Addirittura, Danny abdica semplicemente al proprio ruolo da protagonista, nel momento in cui la scrittura ci consegna un altro personaggio principale: Colleen Wing.

Già lo scorso anno il personaggio di Jessica Henwick era emerso come più piacevole, non la classica spalla femminile del protagonista, ma una vera controparte capace di sporcarsi le mani nei momenti d'azione. Qui Colleen, che rimane una figlia della Mano, retaggio che teme, matura nel corso delle puntate, e la risoluzione della sua vicenda si rivela appagante e sorprendente (alcuni, forse, non gradiranno). Funziona nei molti momenti di confronto con Danny, in cui lei dovrebbe rappresentare la voce della coscienza, e invece sottilmente ci rendiamo conto che la scrittura sta spostando l'attenzione proprio su di lei; e funziona in coppia con Misty Knight, un'idea già mostrata nella seconda stagione di Luke Cage.

Ward è il "Jeri Hogart" della stagione: avrà la sua storyline personale, poco interessante, ma comunque migliore di quella di Joy, molto sacrificata anche lei. Davos è una nemesi che potrebbe funzionare, grazie ad una svolta creativa a metà stagione e grazie all'idea di appoggiarsi a conflitti già introdotti nel primo anno. Eppure nel lungo periodo anche le sue motivazioni perdono di efficacia e poco rimane oltre alla rabbia cieca. Fanno da contraltare a tutto ciò molti, troppi dialoghi incentrati sul dramma famigliare in atto. Senza dubbio la formula da dieci episodi aiuta, ma solo fino a un certo punto. Alice Eve è molto piacevole come Typhoid Mary, personaggio diviso tra due identità opposte. La sua è un'interpretazione molto sentita, giocata tra una pietà che proveremo per la metà più debole e la paura che dovrebbe suscitare quella più crudele (la prima funziona meglio della seconda).

Tutto ciò conduce ad un cliffhanger finale che ribalta alcune considerazioni portate avanti nel corso degli episodi, e introduce tutto un nuovo mistero che dovrebbe essere esplorato nel corso di un'eventuale terza stagione.

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