Io sono Vera, la recensione

Tra il versante mistico e quello del dramma famigliare, Io sono Vera punta sul secondo, ma il risultato è assai banale e stucchevole. La recensione

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La recensione di Io sono Vera, al cinema dal 17 febbraio

In Liguria, una bambina di 9 anni scompare senza lasciare traccia. In Cile, nello stesso momento, un uomo, colpito da un infarto, si risveglia all’improvviso, cominciando ad avere strana visione della bambina. Cinque anni dopo lei ricompare, ma come donna di trent’anni: i genitori, sconvolti, fanno fatica ad accettarla. Io sono Vera parte da questo spunto thriller/fantascientifico, ma non stupirà più sostenere che, considerando che è un film italiano, punti più sul versante del dramma famigliare piuttosto che su quello del mistero. Forse neanche più che questo sia narrato con un intreccio e una messa in scena ben poco originali.

La prima parte si svolge nel deserto cileno Atacama (il più arido del mondo), luogo torrido e quasi post-apocalittico, con un’afa percepibile sui volti dei personaggi. L’uomo cileno vaga accompagnato da una giovane donna con cui discute animatamente. Non sappiamo chi è ma facile intuire la loro relazione. Le vicende paiono confuse (né verranno del tutto chiarite al termine del film) ma l'enigmaticità e il fascino dei luoghi non diventano motivo d’interesse né l'indagine il vero motore della narrazione: la dimensione misterica e meditativa (tipica di quella regione) viene presto abbandonata per focalizzarsi su quella umana.

Questa diventa ancora più predominante nella seconda parte, in cui, lasciato ai margini l’uomo, la storia si concentra sul rapporto tra i genitori e la figlia ritrovata: il padre rimane più scettico, la madre invece la riconosce subito. Sotto la flebile patina fantascientifica, il tema è dunque molto verosimile: la difficile accettazione della crescita e dei cambiamenti della propria bambina. Senza più il mistero a guidare lo svolgimento, si susseguono quadretti di un’intimità struggente e melodrammatica, pieni di pianti e dichiarazioni assolutorie ("È la nostra bambina. Devi accettarla!"). Tutto scivola verso la banalità, complice anche una regia non all'altezza.

Beniamino Catena, all’esordio nel lungometraggio, viene dal mondo dei videoclip e della televisione (DOC-Nelle tue mani 2), da cui trae le tendenze peggiori. Ritaglia scene in ralenti accentuati da spot pubblicitario e punta su una recitazione esasperata: sono in particolare gli interpreti dei genitori (Anita Caprioli e Paolo Pierobon) a risultare così artificiosi nel rappresentare il loro dramma. Quello che avrebbe voluto essere commovente si fa semplicemente insipido e stucchevole, in un intreccio convenzionale e privo di spessore psicologico/narrativo. Le possibili spinte verso il thriller vengono annacquate: le musiche evocative dei Marlene Kuntz, una riflessione sul corpo femminile che cambia, una svolta accennata e poi subito chiusa.

E allora non stupisce che Io sono Vera, che aveva la presunzione di essere criptico e metafisico, di parlare di fede e spiritualità, si conclude riassumendo il proprio pensiero con: "Siamo fatti della stessa materia delle stelle".

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