Io Sono Tempesta, la recensione

Innamorato del proprio tono favolistico Io Sono Tempesta propone una chiara lettura della società italiana senza però poi saper costruire su di essa

Critico e giornalista cinematografico


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C’è una ricchezza da favola contrapposta ad una povertà molto reale in Io Sono Tempesta. Daniele Luchetti questa volta crea un mondo che flirta tantissimo con il favolistico (lo si sente dalle musiche, lo si vede dalla scenografia degli alberghi di lusso frequentati dal protagonista, lo si avverte nella maniera in cui gli eventi sono presentati), in cui un miliardario che vive abitando hotel di lusso appena costruiti prima di averli venduti, viene condannato ai servizi sociali per frode fiscale e così deve passare le sue giornate a dare da mangiare, a pulire e a curare gli indigenti.

Lo Scrooge di Marco Giallini, sempre allegro e voglioso di conquistare il prossimo ma ingrigito da una vita di denaro e da un brutto rapporto con il padre, è manicheo come si conviene ad un protagonista di una favola nerissima e ben poco ottimista. Come prevedibile comincia lentamente a corrompere l’animo non proprio puro dei poveri con cui è a contatto e per accorciare la sua pena li paga per dare valutazioni positive su di lui ma poi, intrigato da qualcuno che forse può davvero definire “amico” li coinvolge nelle sue avventure finanziarie.

È evidente che nel fascino del denaro e del benessere di Numa Tempesta gioca un ruolo fondamentale il fascino di Marco Giallini, simpatico anche quando antipatico, bastardo con il sorriso, imprenditore demoniaco a cui voler subito bene e da cui farsi ammaliare. Molto di Io Sono Tempesta si gioca sullo star power del suo protagonista, ma la partita più interessante è invece quella di Elio Germano, povero con figlio a carico più sveglio di lui, che recita di rimessa, non si mette al centro e anzi si mescola ai non attori con grandissima maestria, riuscendo a non far avvertire la differenza di esperienza e capacità.

Purtroppo è proprio il film che sembra voler essere un oggetto un po’ fuori dal tempo, irrisolto nel suo desiderio di leggere la realtà attraverso una lente lievemente deformante (la povertà è concreta, le decisioni, le azioni e gli eventi un po’ meno). È chiara l’idea di un’Italia in cui la classe media va scomparendo e in cui sempre di più molti sono poverissimi e pochi sono ricchissimi, molto meno lo è la lettura che fa il film di questa situazione, la ragione per cui una storia simile vada raccontata in questa maniera. Tutto rimane purtroppo più nelle dichiarazioni che nelle idee visive, nelle svolte di trama o nelle invenzioni dei personaggi. Solo una scena finale in una sala slot troverà un accostamento visivo e un finto lieto fine degni dell’impegno profuso, per quanto tardivi.

Emblema perfetto dell’irrisolutezza di un film realizzato così bene sono i personaggi delle tre escort. Tre fatine sessualmente potentissime che nel loro mix di ingenuità e interesse verso i barboni (studiano psicologia e applicano scriteriatamente tutto quel che hanno letto) sono autenticamente esilaranti e dannatamente reali, eccitanti e tristi. Sono la trovata migliore del film eppure non si integrano mai a esso, sembrano un corpo esterno che illumina alcune scene senza contribuire al risultato finale.

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