Io sono l'abisso, la recensione

Di nuovo il nord malvagio, stavolta più carico ed espressionista, per Donato Carrisi che ha più problemi di recitazione che di fotografia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Io sono l'abisso, il film di Donato Carrisi in sala dal 27 ottobe

Brutta notizia: la frase del titolo viene effettivamente pronunciata all’interno del film. Cioè c’è qualcuno che ad un certo punto dice “Io sono l’abisso”, cosa che è molto difficile da rendere plausibile a meno che non sia in bocca a qualcuno come Thanos. Invece accade nel nuovo film di Donato Carrisi, tratto da un romanzo di Donato Carrisi, adattato da Donato Carrisi, giallo di impostazione più o meno classica (di certo più del precedente L’uomo nel labirinto), in cui seguiamo sia una madre che agisce come un detective sui generis, mettendo insieme indizi, seguendo piste e scoprendo quel che la polizia non sa ma sempre con il disprezzo delle persone intorno a lei, sia il serial killer ossessivo e glabro, che rimorchia donne in là con gli anni scegliendo tra quelle sole al mondo (come lo sa lo scopriamo subito, rovista tra la loro spazzatura e capisce tutto), le uccide e poi le fa sparire, il quale si ritrova con una persona bisognosa di lui.

Come abbiamo visto accadere anche nei film precedenti di Carrisi, Io sono l’abisso lavora moltissimo di messa in scena, carica molto gli ambienti e cerca di creare una dimensione prima di tutto visiva che concretizzi la minaccia, la tensione e la suspense. La scenografia unita alla fotografia è anche fondamentale ma di nuovo affossata dal fatto che nessuno tra gli attori che riempie le immagini è diretto bene. Sono buoni nomi del cinema italiano che non riveliamo non perché sia un segreto ma aderendo alla richiesta esplicita dell’autore di non nominarli per rendere più realistiche le vicende narrate (anche se sarebbe facile rispondere che quando la recitazione è buona tutto sembra già sufficientemente realistico). Ad ogni modo come nel cinema peggiore più i toni si alzano, più c’è da caricare le battute, peggio si finisce fino alla medaglia al valore della cattiva recitazione: l’urlo disperato senza enfasi.

Questo purtroppo capita spesso in un film in cui lo scoccare malvagio dei fulmini sottolinea la presenza del male (qualcuno potrebbe definirlo “cringe” ma di certo non noi!) e il killer è comandato da una fantomatica presenza dietro un porta chiusa. Dettagli da Hitchcock che lungo Io sono l’abisso lasciano il posto a suggestioni da Dario Argento totalmente fuori posto. Oltre al classico trauma nel passato, raccontato in flashback sempre più rivelatori e quindi violenti, ci sono spesso luci dai colori di Luciano Tovoli che qui sembrano più che altro velleitarie (perché quell’uso di quei colori appartiene alla sua era, era sensato in un cinema che era tutto espressionista, operativo ed enfatico, in uno invece più trattenuto invece non dice granché) e un continuo giocare con la percezione dello spettatore portato a vedere quel che vede o sente il killer.

Tuttavia anche il desiderio più sfrenato di divertirsi un po’ e basta davanti a Io sono l’abisso si infrange di fronte ad un’umanità ritratta con una serietà che avrebbe meritato altro trattamento. Il mondo del film è uno in cui per chiunque vivere è un peso, una tragedia da cui cerca volente o nolente di uscire tramite la morte o la cosa che più ci si avvicina, materia in teoria ottima e potenzialmente incendiaria (visto che siamo un generico nord Italia lacustre ben caratterizzato) ma la maniera in cui tutta la confezione mette insieme l’abbinamento peggiore possibile, quello cioè tra grandiosità delle ambizioni e fiacchezza dei risultati, lo condanna a parlare senza dire davvero niente.

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