Io sono Capitan Tsubasa, la recensione
Io sono Capitan Tsubasa ci trasmette intatto l'immenso pathos di un manga immune allo scorrere del tempo
Classe 1971, ha iniziato a guardare i fumetti prima di leggerli. Ora è un lettore onnivoro anche se predilige fumetto italiano e manga. Scrive in terza persona non per arroganza ma sembrare serio.
Capitan Tsubasa, manga noto in Italia anche come Holly e Benji, debuttava nel 1980 fra le pagine di Weekly Shonen Jump, la rivista ammiraglia di Shueisha: un breve fumetto autoconclusivo che si sarebbe trasformato in una serie regolare a partire dall'anno successivo, finendo per affermarsi come uno degli spokon più celebri di tutti i tempi, anche grazie alla trasposizione anime del 1983 realizzata da Tsuchida Production.
Tsubasa Ozora - ribattezzato Oliver Hutton dal doppiaggio nostrano – si è appena trasferito nella cittadina di Nankatsu. Iscrittosi all'ultimo anno della scuola elementare del luogo, ne diventa in breve l'idolo entrando nella rappresentativa di Calcio. Sua acerrima rivale è la formazione della vicina scuola Shutetsu, capitanata dall'imbattibile portiere Genzo Wakabayashi, alias Benjamin Price. Tsubasa fa quindi la conoscenza di Roberto Hongo (Roberto Sedinho), ex attaccante della Nazionale Brasiliana che ha dovuto abbandonare prematuramente la carriera professionistica per un distacco della retina. Il calciatore riconosce subito nel ragazzo un talento formidabile e decide di allenare lui e la Nankatsu. Il cartonato si chiude con l'accanito, spettacolare derby tra i due istituti.
Ancora più dell'anime, grazie alle peculiarità della Nona Arte, il manga è in grado di amplificare la sospensione dell'incredulità: divengono dunque spontanee e naturali agli occhi del lettore - più che a quelli del telespettatore - le incredibili giocate e i potenti tiri di Tsubasa, così come le parate sovrumane di Genzo. Takahashi dimostra una tecnica sopraffina nel definire e governare le linee cinetiche sul foglio, conferendo alle sue rocambolesche scene dinamicità estreme e prospettive ardite, ma rendendo sempre con chiarezza ciò che sta accadendo nella vignetta.
"Un fumetto in grado di stupire ogni genere di appassionato, grazie all'energia folgorante e all'entusiasmo contagioso che scaturiscono senza freni dalle sue pagine."In queste tavole è difficile non ravvisare, soprattutto da parte dei meno giovani, le influenze di un precursore e di un interprete assoluto dello spokon come Asaki Takamori (4 settembre 1936 – 21 gennaio 1987), noto in tutto mondo come Ikki Kajiwara e firma di capisaldi del genere come Tommy, la stella dei Giants (del 1966, disegnato da Noboru Kawasaki), L'Uomo Tigre (1968, con Naoki Tsuji) e Rocky Joe (1968, insieme a Tetsuya Chiba); in collaborazione con l'artista Mitsuyoshi Sonoda ha inoltre firmato Akakichi no eleven (1968), la cui celeberrima trasposizione animata, giunta in Italia all'inizio degli anni '80 con il nome Arrivano i Superboys, vedeva un giovane Yoshiyuki Tomino agli storyboard.
In un certo senso, Takahashi raccoglie il testimone da Takamori: ne eredita certamente alcuni elementi seminali, tra cui spiccano la magia e l'alone quasi sovrannaturale che caratterizzano le incredibili performance dei campioni in azione; allo stesso tempo ne mitiga la drammaticità, tipica delle opere di Kajiwara. I personaggi di Takahashi sono più leggeri e meno complessi caratterialmente, mentre le problematiche affrontate si risolvono esclusivamente nel corso delle competizioni sportive, senza sfiorare tematiche sociali e personali. I suoi soggetti sono solari, positivi e spensierati, tanto da aver conquistato un enorme pubblico, composto anche da una concreta quota rosa.
Questo splendido volume targato Mondadori e Star Comics – che però meritava un minimo di apparato redazionale - riesce a trasmetterci quanto detto poc'anzi, diffondendo in noi tutto l'immenso pathos di un titolo immune allo scorrere del tempo.
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Fonte immagini: TGCOM24