Io sono Babbo Natale, la recensione | Roma 16

A metà tra morale evangelica da parabola e mitologia fantastica internazionale, Io sono Babbo Natale non è né carne né pesce

Critico e giornalista cinematografico


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Io sono Babbo Natale, la recensione

Il Natale sta cambiando anche in Italia. È tutto figlio del grande balzo in avanti che alcuni produttori stanno cercando di fare, un balzo che dovrebbe portare il cinema popolare italiano a flirtare sempre di più con il fantastico invece di limitarsi alle commedie. Non sempre è ben fatto, anzi quasi sempre è un disastro maldestro ma sottolineato come anche il Natale ne è interessato. Per la prima volta stiamo iniziando a creare anche noi delle mitologie intorno alle feste, periodo che in precedenza al massimo era territorio di buoni sentimenti con neve, adesso diventano film su Babbo Natale (e sulla Befana, vero apripista non a caso concepito da Nicola Guaglianone). Io sono Babbo Natale cerca di avere uno stampo così popolare che finisce per vivere di due anime: quella internazionale fantastica e quella tradizionale, tradizionalissima, che lo fa iniziare con una rassicurante frase tratta dal vangelo sul fatto che essere bambini è una grandezza.

Edoardo Falcone che con la religione aveva già avuto a che fare in Se Dio vuole e ci aveva ronzato intorno in Questione di karma, ora prende il Natale commerciale e ci confeziona un film che parte come Capra (Gigi Proietti esibisce anche un cappello da angelo Clarence) e finisce come Lo chiamavano Jeeg Robot. I sentimenti che vengono appiccicati a questo Natale romanesco con gli elfi che mangiano trippa sono la compassione per chi ha sbagliato, la redenzione dell’ammissione dei propri errori e l’idea che gli ultimi sono i più vicini alla purezza se si pentono. Veramente lo schema narrativo delle parabole del vangelo con il trucco del cinema di supereroi.

Perché nella mitologia di Io sono Babbo Natale (un po’ “lo chiamavano” un po’ “Io sono Iron Man”) è quella dei poteri. Proietti è Babbo Natale e accoglie in casa il ladro Giallini, opponendo alla sua brutalità la gentilezza e riuscendo a portarlo sulla buona strada fino a trasformarlo nel prossimo Babbo Natale. Questo non prima che Giallini usi i poteri conferiti dal berretto di Babbo Natale per rubare, fregare e stare di più con l’immancabile figlia avuta dalla moglie che ora sta con un altro (“...sarà perché in Italia i figli… eh i figli sono sempre i figli” dice Mastroianni in Divorzio all’italiana). Ci sarà anche una scena di rapina al portavalori molto simile a quella di Jeeg Robot a strizzare l’occhio in quella direzione.

Dunque con una cornice straniera (i poteri da usarsi per il bene con un’etica, solo dopo un’avventura che consentirà di maturarne una) e una molto nazionale, Io sono Babbo Natale tramite la redenzione cerca una via nazionalpopolare italiana per suggerire che questo film risponde ad uno spirito italiano, uno che di fatto non esiste quando parliamo di Babbo Natale ma che forse così possiamo illuderci che lo sia. Di fatto il film tiene il piede in così tante staffe da non fare bene nessuna delle cose che si propone di fare, da risultare un po’ incoerente come tono e da non essere mai compatto come i precedenti di Falcone. Anche la coppia che poteva sembrare perfetta (Proietti e Giallini) non fa mai scintille. I due sembrano recitare separatamente in film diversi, non trovano un terreno comune, non ingaggiano duelli verbali significativi e non riescono nemmeno a mettere in armonia (o in contrasto) le loro due romanità.

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