Io sono Babbo Natale, la recensione | Roma 16
A metà tra morale evangelica da parabola e mitologia fantastica internazionale, Io sono Babbo Natale non è né carne né pesce
Il Natale sta cambiando anche in Italia. È tutto figlio del grande balzo in avanti che alcuni produttori stanno cercando di fare, un balzo che dovrebbe portare il cinema popolare italiano a flirtare sempre di più con il fantastico invece di limitarsi alle commedie. Non sempre è ben fatto, anzi quasi sempre è un disastro maldestro ma sottolineato come anche il Natale ne è interessato. Per la prima volta stiamo iniziando a creare anche noi delle mitologie intorno alle feste, periodo che in precedenza al massimo era territorio di buoni sentimenti con neve, adesso diventano film su Babbo Natale (e sulla Befana, vero apripista non a caso concepito da Nicola Guaglianone). Io sono Babbo Natale cerca di avere uno stampo così popolare che finisce per vivere di due anime: quella internazionale fantastica e quella tradizionale, tradizionalissima, che lo fa iniziare con una rassicurante frase tratta dal vangelo sul fatto che essere bambini è una grandezza.
Perché nella mitologia di Io sono Babbo Natale (un po’ “lo chiamavano” un po’ “Io sono Iron Man”) è quella dei poteri. Proietti è Babbo Natale e accoglie in casa il ladro Giallini, opponendo alla sua brutalità la gentilezza e riuscendo a portarlo sulla buona strada fino a trasformarlo nel prossimo Babbo Natale. Questo non prima che Giallini usi i poteri conferiti dal berretto di Babbo Natale per rubare, fregare e stare di più con l’immancabile figlia avuta dalla moglie che ora sta con un altro (“...sarà perché in Italia i figli… eh i figli sono sempre i figli” dice Mastroianni in Divorzio all’italiana). Ci sarà anche una scena di rapina al portavalori molto simile a quella di Jeeg Robot a strizzare l’occhio in quella direzione.