Io e Spotty, la recensione

Uno dei film più difficili e quindi ambiziosi degli ultimi anni muore sotto i colpi di una scrittura e una recitazione non all'altezza

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Io e Spotty, in uscita in sala dal 7 luglio

C’è da stimare Cosimo Gomez e Luca Infascelli per aver tentato un film difficilissimo. E c’è da stimare la Mompracem dei fratelli Manetti per averlo prodotto. C’è da stimarli anche se poi il risultato finale è insufficiente, in un tipo di film nel quale gli equilibri tra toni, la scrittura e la recitazione devono essere così perfetti per rendere credibile qualcosa di strano, plausibile qualcosa di fuori dalla norma e sentimentale qualcosa che altrimenti sarebbe solo scemo, da annullare qualsiasi esito intermedio tra la completa riuscita e il fallimento cocente. Un film come Io e Spotty poteva essere soltanto o un gioiello o un esperimento fallito. Purtroppo è stata la seconda ma certe volte è meglio aver tentato che non osare, non immaginare e arrendersi.

Parliamo di una storia in cui la nascita di un sentimento tra un ragazzo e una ragazza passa per la decisione di lui di condurre la sua vita privata non solo sempre vestito da cane, ma comportandosi da cane e facendosi considerare un cane. Al lavoro è un animatore, una persona comune, a casa è Spotty. Dal lavoro cerca una dog sitter per assisterlo e quando lei arriva pensando di trovare un cane, ha davanti solo questa persona in un costume dentro in un’abitazione piena di giochi per cani. Comprensibilmente si spaventa e scappa. Ma Eva, la ragazza che ha risposto all’annuncio, è sufficientemente in cerca di un’identità e un posto nel mondo anche lei da rimanere stranamente incuriosita e tentare una seconda volta, con più coraggio. 

Come è facile immaginare il punto del film è raccontare l’avvicinarsi di due persone che si percepiscono differenti, e non si integrano benissimo con il mondo intorno a loro, attraverso il meno consueto dei percorsi. Da un lato quindi è un film che racconta due persone che arrivano a capirsi ad un livello più alto, dall’altro è uno che vuole giungere a quest’obiettivo stabilendo una relazione a sua volta particolare con il pubblico. Perché anche noi rimaniamo straniati dagli atteggiamenti (mai spiegati a parole, per fortuna), anche noi veniamo respinti dal costume da cane e anche noi infine, come Eva, lentamente dovremmo essere conquistati da qualcosa, dalla relazione, dal sentimento o almeno dall’aria poco convenzionale che si respira.

Il problema di Io e Spotty è che tutto questo non avviene. È difficilissimo entrare in questa storia, trovare qualcosa di così caldo e umano da superare la stranezza. Serviva decisamente un’altra scrittura, molto ma molto meno convenzionale nello svolgimento e molto più curata, precisa ed accurata nei dialoghi e soprattutto nei tempi (sempre sbagliati, rapidi quando serviva calma, dilatati quando bisognerebbe andare al dunque). Ma serviva anche tutta un’altra recitazione. Io e Spotty mostra in pieno i limiti di Filippo Scotti, buona maschera di inadeguatezza in È stata la mano di Dio, attore totalmente inadeguato qui. E meglio non va a Michela De Rossi, a cui tocca il ruolo più difficile, che non è in grado di sostenere. È dalle sue espressioni, dal suo muoversi e dal suo sguardo che dovremmo capire il cambiare dei sentimenti, la nascita di qualcosa o anche solo la tensione emotiva (perché Scottinelle loro interazioni è sempre mascherato) e invece non arriva niente. È lei a doverci “vendere” questa storia, in modo che possiamo crederci e possiamo entrarci, capendo come, per quanto sia tutto inusuale, questi due animi stanno vivendo qualcosa di tremendamente umano. Ma è palesemente un’impresa superiore alle capacità.

Considerato tutti questi presupposti alla fine è impensabile riuscire in un'impresa così complicata.

Continua a leggere su BadTaste