Io e Lulu, la recensione
Con scarso riguardo per ciò che non serve al protagonista, Io e Lulu è il classico veicolo per il proprio attore ma diretto dall'attore stesso
Non è facile dirigere se stessi. Specialmente se si è protagonisti del film. Specialmente se il film è pensato per mettere in luce se stessi come attori. Bisogna conoscere così bene il proprio corpo e avere una cognizione così precisa di come funzioni una volta ripreso da non necessitare nessun occhio esterno e sapersi posizionare nello spazio sempre bene. La cognizione che Channing Tatum mostra di avere di se stesso è più o meno di un uomo seduto al tramonto, di un corpo pensato per attirare, di un feticcio da ammirare, calamita per diverse donne lungo il film, più che dispositivo attraente per quel che fa. È così che attraversa Io e Lulu: trattandosi come un oggetto del desiderio.
Poteva essere una maniera di ricalcare la dinamica vincente di Il cavaliere elettrico (con la guerra al posto dell’essere invecchiati e consumati dall’industria dello spettacolo), invece Io e Lulu sceglie un territorio scivoloso con scarsa voglia di stare attento. Il confronto tra il soldato che non può tornare sul fronte perché troppo danneggiato e l’America moderna è una continua presa in giro di hipster e idee moderne (come la mascolinità tossica) e quando per fare un po’ di umorismo Lulu, abituata al lavoro in Afghanistan, vede un uomo vestito come quelli con cui si confrontava lì lo assale. Questa trovata poteva essere usata in molti modi (Lulu è stata trasformata in un’arma? È questa la visione che lo stato le ha dato e dalla quale non si può liberare?) e invece è solo umorismo. Il cane riconosce una persona di cultura araba dall’abbigliamento, lo assale e si ride, senza farsi domande.