Inu-Oh, la recensione | Venezia 78

Un delirio abbagliante di visuals e musica rock per raccontare due star del teatro No del 1300. Inu-Oh è l'ultima cosa che si poteva prevedere

Critico e giornalista cinematografico


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Inu-Oh, la recensione | Venezia 78

C’è da capirlo subito proprio, con quel montaggio elettrico che dalle strade di pioggia notturna di oggi di salto in salto ci porta nel Giappone feudale del 1300, che stavolta (finalmente) Masaaki Yuasa sta lavorando al di fuori del sistema. Inu-oh è un film d’animazione tecnicamente molto molto imperfetto, animato con tantissima testa e un occhio eccezionale, è pieno di idee ma non di soldi. È un film che non batte percorsi per forza commerciali, rifiuta qualsiasi semplicismo, si può permettere scelte fuori dai canoni ed è bellissimo.

Con un tratto che quando può imita, riprende e cita la pittura tradizionale giapponese più che la tradizione degli anime, il film racconta la storia di due innovatori del teatro No, un attore e uno scrittore, e lo dichiara subito. Solo che poi trasforma tutto, usando la musica al posto del teatro e poi la musica rock al posto della musica tradizionale. Gli innovatori Inu-oh e Tamaori sono Mick Jagger e Keith Richards in un delirio di splendidi anacronismi che crescono fino al culmine del terzo atto. Entrambi imperfetti e marginali (uno cieco l’altro deforme), i due si conoscono durante una performance, formano un gruppo e fanno qualcosa di simile a quelli che oggi sono i concerti (che con il passare delle esibizioni diventano proprio i grandi concerti moderni). Gli strumenti sono temporalmente giusti, ma i suoni che sentiamo sono canzoni con chitarre elettriche. Le performance invece oscillano tra Bowie, i Pink Floyd (alcuni visuals come quello della balena, con l’acqua è da impazzire davvero) e i passi di Michael Jackson. Erano moderni, questo capiamo, e hanno creato un nuovo rapporto con il pubblico.

Ma che libertà artistica in questo film! Che elettricità! E che scelta lasciare questi brani di 5 o 6 minuti per intero, farci vedere tutta la performance live, il pubblico dell’epoca (spesso mutilato) incendiato fare break dance e le storie che raccontano (ispirati dagli Heike tradizionali) visualizzarsi liberamente, senza stare troppo a badare alla forma e alla coerenza narrativa. Questa rock opera feudale che non risponde a nessuna regola del buon cinema e in cui da un certo punto in poi la musica non smette mai, è arrogantissima e sa cosa vuole. Ha un’idea di fantasia e produzione artistica semplice e polemica (lo Shogun non vuole che suonino perché perturbano gli animi) che si sposa con i diversi atteggiamenti delle due star, una pronta a compromettersi l’altra invece no, dura e pura.

Masaaki Yuasa capisce anche bene il legame essenziale tra performance e corpo e così il fisico pieno di deformazioni del frontman ad ogni brano esplode tornando normale, diventa un corpo addomesticato, sempre più di sistema, sempre più conciliante. È il successo e il consenso a mutarlo e renderlo normale da che era perturbante. E qui sta uno dei nodi più importanti. Inu-Oh prende quelle che si presentano come le rigide gabbie della performance artistica del teatro No e le trasforma in qualcosa di coraggioso, audace, giovanile e ribelle. Vuole dire (con le sole immagini) che tutte le arti, a prescindere dal tempo e dal luogo, se sono popolari e sanno parlare al pubblico del proprio tempo instaurano con esso il medesimo rapporto di accensione di un desiderio di qualcosa di più. L'opposto logico della tradizione, che invece conferma continuamente che "qualcosa di più" non c'è ed è inutile cercarlo. Meglio rispettare le regole.

Ma il bello del film è che come in un musical non tutto deve tornare, importa molto di più l’adrenalina, la musica e quello che visivamente si riesce a creare. Tantissimo in questo caso. Come quando quelle che noi siamo abituati a pensare come muse (cioè il principio immateriale a cui deleghiamo la fonte della creatività) si rivelano essere demoni, demoni che vogliono bambini, demoni dai cui patti per avere il successo (come in Rosemary’s Baby) sono nati proprio i protagonisti. Demoni del rock che hanno creato le due grandi anime del teatro No. L'innovazione non è frutto degli angeli è un delirio che spacca tutto partorito dal diavolo in persona.

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