Into the Badlands è un pasticcio, uno di quelli molto divertenti, senza pretese, anzi con la sola voglia di divertirsi e di divertire lo spettatore. Senza troppa logica, con riferimenti vari e spesso contraddittori, ma dove la coerenza e il world-building non sono fondamentali e servono solo come riferimento occasionale. La serie della AMC ideata da
Miles Millar e
Alfred Gough – i responsabili di
Smallville – accumula generi, riferimenti colti, tanta azione, cattivi cattivissimi e drammi d'ogni tipo. Non fa dell'eleganza la sua bandiera, ma tra mazzate orientali e tacchi a spillo può essere un buon passatempo.
Siamo in un futuro post-apocalittico – perché ormai il futuro può essere immaginato solo così, le visioni ottimiste non fanno parte del nostro tempo da parecchio – dove un territorio dalle dimensioni non meglio identificate viene governato da sette baroni. Uno di questi, di nome Quinn, ha delle guardie scelte implacabili e fortissime che prendono il nome di Clipper, la più forte delle quali è un guerriero dai tratti orientali di nome Sunny. Sunny un giorno incontra un ragazzino, di nome M.K., che nasconde dei poteri, un segreto che in molti vorrebbero conoscere per poterlo controllare e, probabilmente, dominare le Badlands.
Questo a grandi linee. Ogni personaggio ha il suo piccolo dramma e conflitto interiore. Ci sono le
arti marziali e le città fortificate, i drammi familiari, l'addestramento, il codice d'onore da samurai, e tante persone che hanno i pugni nelle mani e valgono quanto un esercito. È chiaro fin da subito che non è interesse della storia costruire una mitologia interna degna di essere approfondita o che abbia una coerenza assoluta: le armi da fuoco non esistono, che è un'idea molto valida per giustificare la diffusione delle arti marziali e del combattimento corpo a corpo, ma i veicoli ancora funzionano e c'è l'elettricità. Come detto prima non si capisce bene l'estensione del territorio o effettivamente quante persone vivano in questi baronati, che spesso appaiono troppo piccoli. E se il passato non viene approfondito – e non lo sarà – spesso stridono questi immaginari (western, Cina antica, mondo post-apocalittico) mischiati tra loro.
Ma, appunto, tutto è così leggero e superficiale – nel senso che non viene mai approfondito, ma lasciato alla nostra immaginazione e conoscenza dei generi e dei loro stereotipi – da non dare fastidio. I combattimenti sono molto buoni, parecchio coreografati e, anche qui, divertenti e con la giusta dose di violenza. Ottimo il lavoro del cinese Daniel Wu, che oltre ad avere una carriera imponente nel suo Paese d'origine, qui è produttore esecutivo e volto e fisico più interessante del cast. Si sarà capito a questo punto che né le interpretazioni né i dialoghi sono il punto forte dell'opera.
Ci sono poi i riferimenti al
Viaggio in Occidente, che è un classico assoluto della letteratura d'ogni tempo e che tra le altre cose è anche l'ispirazione principale per
Dragon Ball. Ora, qui rimane più che altro una dichiarazione d'intenti, il riferimento principale rimane il personaggio di M.K. (che dovrebbe stare per Monkey King). Questo è lo show in breve: poche pretese, il giusto intrattenimento, sei episodi previsti per questa stagione. Ah, la sigla merita tantissimo.