Insidious: L'Ultima Chiave, la recensione

Scritto con grandissima vivacità e molte idee intelligenti, Insidious: L'Ultima Chiave è però girato con così poca voglia da abbassare ogni eccitazione

Critico e giornalista cinematografico


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Non sarebbe stato strano trovare una certa stanchezza nel quarto capitolo di Insidious, specie vista l’assenza di James Wan che tanto bene aveva animato primo e secondo film. Invece la sorpresa è che Insidious: L’Ultima Chiave è solo parzialmente una copia deteriore dei precedenti tre. In realtà dietro una regia di sconfortante pochezza, pochissima fermezza con gli attori e nessuna inventiva, si nasconde uno dei migliori script della saga.

La storia è sempre di Leigh Whannell, autore di tutti i capitoli (ma anche inventore della saga di Saw sempre in coppia con Wan) e pure regista del terzo, che stavolta sceglie di tornare indietro nel tempo, al 2010 (e poi ancora più indietro), per raccontare la storia della medium che vediamo aiutare la famiglia nel primo film, quella interpretata da Lin Shaye. Cosa le è successo prima della telefonata con cui entra in scena nel primo Insidious, cosa c’è nel suo passato, da quanto ha quel dono e cosa le è costato. Domande più che usuali per un prequel/spin-off, che però Whannell usa per fare un film completamente diverso dal prevedibile.

Dietro una regia di sconfortante pochezza, pochissima fermezza con gli attori e nessuna inventiva, si nasconde uno dei migliori script della sagaNonostante infatti la regia di Adam Robitel riesca a far recitare male quasi tutti (e il doppiaggio italiano dà la mazzata finale) lo stesso Insidious: L’Ultima Chiave nel raccontare di presenze e case animate (del resto è un film Blumhouse co-prodotto dal creatore di Paranormal Activity, Oren Peli) crea una storia che si esalta nel confine tra vero e falso, tra reale e metafisico, in cui per la prima volta la veggente non è la persona che vede e più degli altri ma quella che viene più facilmente ingannata. Proprio quando si ha l’impressione che il meccanismo di visioni e apparizioni sia abusato, si ripeta e venga riproposto con pigrizia in realtà la sceneggiatura affonda una serie di colpi intelligenti e spiazzanti, in cui il male è qui da noi tanto quanto nell’al di là come in Guillermo Del Toro.

Più che altro in questo film colpisce quanto alle volte possa essere strano il cinema. In una produzione così scalcinata e dalla regia incerta, si trova uno dei copioni che meglio mettono in scena il meccanismo fondamentale del cinema dell’orrore.

Addirittura Insidious: L’Ultima Chiave riesce ad un certo punto a regalare una scena che sintetizza alla perfezione con una sola immagine cosa sia l’horror: quella in cui una delle ragazze potenziali vittime è finita sdraiata per terra in una buia cantina con il seno che innaturalmente, anche da sdraiata, emerge sotto la maglietta mentre nello sfondo, sfocata, una presenza maligna e mostruosa avanza verso di lei, mentre sentiamo solo il suo ansimare così pronunciato da sembrare l’audio di un amplesso. È un momento di unione perfetta di quei due movimenti alla base del genere, cioè l’attrazione eccitata verso certi corpi, il desiderio di toccarli, e quella spaventata che allontana da altri, il desiderio di non esserne toccati.

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