Insidious: la porta rossa, la recensione
Dopo un passaggio di mano Insidious: la porta rossa non perde la sua anima ma perde coerenza e tono
La recensione di Insidious: la porta rossa, il film horror distribuito in sala dal 5 luglio
L’idea di Insidious, originariamente, era di ribaltare il principio di Poltergeist, era uno dei molti horror di inizio millennio ambientati in casa e più che avere dei demoni che infestano l’edificio presentandosi nel mondo reale, si basava su umani che sconfinavano nell’altro mondo. In questo quinto film non manca il viaggio nell’altrove, sempre reso con una semplicità elementare (uguale al nostro mondo ma con meno luce e il fumo per terra) ma tutto somiglia più a un superpotere in linea con il costante sforzo di supereroizzazione di tutti i generi. Al college Dalton usa questa facoltà per avvantaggiarsi, per scoprire cose, la confessa ad un’amica e architetta piani. Il risultato sarà di nuovo l’arrivo dei demoni nel nostro mondo ma tutta la pratica e la tensione che viene dallo stare nell’altrove si perdono.
Pretendere tutto questo dalla sceneggiatura ordinaria di Scott Teems (già scrittore di Halloween Kills) e poi dalla regia inesperta di Patrick Wilson è troppo. Ci voleva decisamente più esperienza e più capacità di immaginare il prodotto finito per scene come quella di montaggio alternato tra mondo reale e altrove nella casa della confraternità, o come quella finale tra presente e passato. Senza contare che ci sono momenti che forse un regista più esperto avrebbe proprio sorvolato o cancellato, come quello in cui vediamo la manona di un demone (che a quel punto ci appare chiaramente come un guantone di lattice) mettere delicatamente la puntina su un giradischi nell’altrove per far partire una musica che accresce la paura.
Bastava aver visto i film di Mel Brooks per capire che una scelta del genere non regge in un film serio.