Insidious: la porta rossa, la recensione

Dopo un passaggio di mano Insidious: la porta rossa non perde la sua anima ma perde coerenza e tono

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Insidious: la porta rossa, il film horror distribuito in sala dal 5 luglio

Padre e il figlio della famiglia Lambert sono rincorsi contemporaneamente dalla maledizione partita con il primo film della serie Insidious, quando viaggiando mentalmente sul piano astrale il figlio aveva aperto una metaforica porta sul mondo reale per dei demoni. Ormai il primo è invecchiato, e il secondo ha superato l’adolescenza e va al college. Si sono fatti anche ipnotizzare (nove anni prima) per dimenticare tutto, ma i viaggi nel piano astrale di Dalton ricominciano e questo riapre la porta che adesso lui disegna pure. Stavolta separatamente, uno in casa e uno al college, subiscono il ritorno di tutto quel che avevano dimenticato e di cui quindi non sanno più niente.

L’idea di Insidious, originariamente, era di ribaltare il principio di Poltergeist, era uno dei molti horror di inizio millennio ambientati in casa e più che avere dei demoni che infestano l’edificio presentandosi nel mondo reale, si basava su umani che sconfinavano nell’altro mondo. In questo quinto film non manca il viaggio nell’altrove, sempre reso con una semplicità elementare (uguale al nostro mondo ma con meno luce e il fumo per terra) ma tutto somiglia più a un superpotere in linea con il costante sforzo di supereroizzazione di tutti i generi. Al college Dalton usa questa facoltà per avvantaggiarsi, per scoprire cose, la confessa ad un’amica e architetta piani. Il risultato sarà di nuovo l’arrivo dei demoni nel nostro mondo ma tutta la pratica e la tensione che viene dallo stare nell’altrove si perdono.

È un filo conduttore di tutto questo film interlocutorio, che segna il passaggio del franchise da una gestione all’altra. Non ci sono più Leigh Whannell a scrivere né (da tempo) James Wan a dirigere, stavolta il regista è lo stesso Patrick Wilson. Questo è il suo esordio e non poteva scegliere film più difficile. Non solo l’horror in generale è molto complicato ma in più, nonostante lui ne abbia grande esperienza da attore, un film non è un puntata di una serie tv, non c’è una ritualità di regia che consente anche a chi ha meno esperienza di prendere la mano. I 90 minuti di Insidious: la porta rossa devono (come sempre) sprizzare tensione e generare paura di continuo e in modi nuovi. In più c’è la difficoltà del fatto che le caratteristiche del franchise richiedono anche più abilità del solito perché i demoni e il mondo demoniaco immaginati originariamente non sono all'altezza. James Wan aveva la capacità di ribaltare tutto e imbastire lo stesso paura.

Pretendere tutto questo dalla sceneggiatura ordinaria di Scott Teems (già scrittore di Halloween Kills) e poi dalla regia inesperta di Patrick Wilson è troppo. Ci voleva decisamente più esperienza e più capacità di immaginare il prodotto finito per scene come quella di montaggio alternato tra mondo reale e altrove nella casa della confraternità, o come quella finale tra presente e passato. Senza contare che ci sono momenti che forse un regista più esperto avrebbe proprio sorvolato o cancellato, come quello in cui vediamo la manona di un demone (che a quel punto ci appare chiaramente come un guantone di lattice) mettere delicatamente la puntina su un giradischi nell’altrove per far partire una musica che accresce la paura.

Bastava aver visto i film di Mel Brooks per capire che una scelta del genere non regge in un film serio.

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