[Cannes 66] Inside Llewyn Davis, la recensione

Il nuovo, mostruoso film dei fratelli Coen conferma come questi due cineasti che curano regia, fotografia e montaggio di ogni loro film stiano dando vita a un cinema completamente inedito...

Critico e giornalista cinematografico


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E' meraviglioso poter avere il privilegio di osservare come, di anno in anno, il percorso dei fratelli Coen si faccia sempre più complesso, scarnificato, essenziale e diretto. Il loro approccio alla descrizione della vita sul pianeta Terra di film in film è sempre meno dipendente da una trama o un intreccio e sempre più paradossale, in perfetta armonia con quell'idea di esistenze dominate dal caos che portano avanti fin da Blood Simple.

Inside Llewyin Davis gira dalle parti di A serious man, è un'altra odissea di un pover'uomo, un cantante folk nella New York degli anni '60, una storia priva di intreccio ma colma di eventi clamorosi che si susseguono l'uno dopo l'altro, tempestando di disgrazie la vita del musicista, provandone lo spirito e fiaccando le sue speranze momento dopo momento. Tutto, ovviamente, condotto con l'evidente consapevolezza di quanto ciò sia esilarante. Perchè per i fratelli Coen l'indeterminabilità del vivere e la mancanza di senso nelle dinamiche che conducono le nostre esistenze, sono asservite alle medesime dinamiche paradossali che scatenano le risate. I loro film non sono comici per cercare di scardinare delle certezze attraverso il ridicolo, sono comici perchè le cose assurde fanno ridere e le cose assurde sono ciò che capita più di frequente. Anche stavolta non c'è nessun senso ultimo.

Però, forse anche più che in A serious man, le disavventure di Llewyn Davis riescono a vivere in un mondo sospeso, in cui ogni scenetta si regge saldamente sulle proprie gambe, grazie soprattutto ad un instancabile lavoro sull'immagine, evidente da subito, dalla prima inquadratura del protagonista che canta, preso da un angolatura e con una composizione dell'immagine che solo apparentemente è normale ma ad uno sguardo attento si rivela peculiare e attraente.

E' il medesimo fascino che dà vita al momento più intenso del film, quando in un viaggio in macchina Llewyn forse ha colpito un animale, vittima anch'egli di un'esistenza spietata che come in un film di Herzog tiene duro e zoppica fino al bosco. In quel momento, in quell'incontro con un animale "selvaggio" lo sguardo del protagonista si riempie di tutta la tristezza del vivere umano, al culmine di una serie di batoste tutta l'amarezza quotidiana che sconfigge la speranza si contamina con la tristezza e la compassione in una notte di neve. Pazzesco.

E' difficilissimo riuscire a comunicare, per non dire raccontare, quanto sia arduo convivere con i propri sentimenti peggiori, con la depressione, la fatica, la disillusione e il senso di smarrimento di fronte alla mancanza di un ordine o un criterio in quel che ci accade. Che due cineasti dedichino una filmografia intera a questo, una filmografia fatta di film dall'esecuzione mai meno di magistrale, è il più grande trionfo non raccontato dell'arte umana.

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