Inshallah A Boy, la recensione

Notevole film d''esordio del regista giordano Amjad Al Rasheed, Inshallah A Boy racconta della ribellione di una donna nel sistema patriarcale arabo, attraverso uno svolgimento e personaggi ben costruiti

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La nostra recensione di Inshallah A Boy, dal 14 marzo al cinema

Nell'intensa prova dell'attrice Mouna Hawa, nella strenua lotta del suo personaggio all'interno della propria famiglia per questioni legate ai soldi, è facile vedere un legame tra Inshallah A Boy e Leila e i suoi fratelli, recente film iraniano. Così anche la pellicola giordana, passata al Festival di Cannes 2023, è un dramma serratissimo, in cui il preciso contesto socio-culturale fa da sfondo alle vicende private dei protagonisti, e non viceversa. Dopo l'improvvisa morte del marito, Nawal (Hawa) si ritrova a dover gestire la piccola figlia Nora e gli ingenti debiti lasciati dall'uomo. A farle pressione è soprattutto il cognato Rifqi (Hitham Omari), desideroso di ottenere la casa e la custodia della bambina. Senza un contratto sottoscritto, tutti i beni diventano infatti proprietà del parente maschio più prossimo: l'unica soluzione per la donna sarebbe far nascere un figlio maschio, e così lei decide di dichiarare una falsa gravidanza.

L'esordio alla regia di Amjad Al Rasheed è veramente notevole. Inshallah A Boy racconta la presa di coscienza di una donna e la sua capacità di resilienza nella società patriarcale araba, che non le lascia vita facile. In quanto vedova non dovrebbe uscire di casa per dieci mesi, ma come può attenersi a questa imposizione se deve comunque continuare a lavorare per sopravvivere? Come può trovare spazio di manovra con figure maschili e le stesse istituzioni che le stringono il cappio al collo? Di fronte a questo quadro, Nawal non si dà per sconfitta e trova supporto in Lauren, nipote della signora a cui fa da badante, che decide di non accettare una gravidanza indesiderata e un marito traditore. Il discorso si allarga ed emergono questioni molto forti. Eppure il film, non tralasciando la componente narrativa, non si limita ad essere operazione a tesi o di denuncia.

Nume tutelare del regista è infatti anche il Cristian Mungiu di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni: una critica forte al suo Paese che passa una struttura da asfissiante thriller. Anche Inshallah A Boy costruisce un intreccio complesso, pieno di piccoli colpi di scena e rivelazioni a sorpresa (fino a quella finale) che facilitano l'immedesimazione dello spettatore e tengono alto il ritmo. Notevole inoltre il lavoro di messa in scena: la macchina da presa segue i personaggi nella loro quotidianità, spesso vicino ai loro volti; altre volte li mostra a distanza dal ciglio della porta o inserendo un elemento di disturbo nell'inquadratura. Modi di veicolare il senso di angoscia e oppressione non tramite educativi e artificiosi dialoghi, ma tramite il linguaggio proprio del Cinema. Scelte perfette per far passare con naturalezza e efficacia il "messaggio" che il film intende lasciare.

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