Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione
Perfettamente calato nello stile e nello spirito della saga, Indiana Jones e il quadrante del destino è un film sul tempo
La recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino, il film con Harrison Ford presentato al festival di Cannes e in uscita al cinema il 28 giugno
Il tempo è tutto nella trama di questo film ed è tutto anche nella sua architettura, pieno com’è di orologi da polso ovunque, pieno di flashback, pieno di momenti in cui si deve correre contro i secondi per non morire soffocati o annegati. Il tempo è cruciale a tanti livelli diversi in Indiana Jones e il quadrante del destino, cosa che espone la dialettica di cui vive il film stesso, cioè la sua lotta contro gli anni che lo separano dai primi tre. Lo sforzo del film non è diverso da quello del suo protagonista e la sua lotta è proprio la stessa. Già in Logan James Mangold aveva mostrato di avere una chiara idea del tempo e del cinema, di sapere come trattare l'eroismo di una volta in una versione terminale e di saper manipolare versioni giovani e anziane dello stesso personaggio. Qui pure è chiamato a prelevare qualcosa dal passato, cioè un film di Indiana Jones, e trasportarlo nel presente del cinema, cercando di fare in modo che vada ancora bene, che funzioni e abbia l’effetto di una volta, ma toccandolo il meno possibile per non snaturarlo.
In questa lotta contro il tempo per avere ancora un ultimo vero film di Indiana Jones le armi più affilate sono il ringiovanimento digitale (usato per una porzione non indifferente del film, e in momenti chiave) e il suo opposto, cioè l’invecchiamento reale, in modo che il secondo possa avere un effetto visto affiancato al primo. Quando incontriamo il protagonista infatti è un relitto, un professore a un passo dalla pensione che nessuno più segue e che vive solo (gli eventi del film precedente sono liquidati in poche battute e, sostanzialmente, resi innocui). Mangold ce lo fa vedere in tutta la sua cadenza senile. Il contrario dell'Indiana dei flashback, nonostante il ringiovanimento non sia impeccabile e nelle scene più concitate si noti l’artificio (la cosa più grave è che leva a Ford le sue espressioni sbruffone). Tuttavia la scena più lunga nel passato (quella iniziale) è così perfetta e sublime che non importa se la voce sia del Ford di oggi, le espressioni siano legnose e qualche movimento sia da anziano. La scrittura dell’azione è così perfetta e così in stile che ci si passa sopra volentieri. Mangold infatti deve imitare Spielberg e lo fa a partire proprio dalla coreografia e dalla scrittura dell’azione, che come in Spielberg sono i momenti in cui capiamo cosa pensino davvero i personaggi, cosa li leghi e quali siano i loro reali conflitti. Come agiscono nei momenti di rischio, quando facciano ironia e come mescolino muscoli, ardore e furbizia è tutto in un film di Indiana Jones. E Mangold lo sa.
Sei d'accordo con la nostra recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino? Scrivicelo nei commenti