Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione

Perfettamente calato nello stile e nello spirito della saga, Indiana Jones e il quadrante del destino è un film sul tempo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino, il film con Harrison Ford presentato al festival di Cannes e in uscita al cinema il 28 giugno

Treni, aerei e automobili. Ma anche cavalli, moto e barche. Sott’acqua, sulla superficie e poi in aria in un grandissimo finale ardito (anche più di quello del film precedente!). Non manca nemmeno un mezzo di trasporto all’elenco di quelli presi da Indiana Jones mentre è alla ricerca del quadrante del destino, non si risparmia e non sta mai seduto se non quando è minacciato con la pistola. Dopo un quarto film deludente e proiettato nel futuro e nella fantascienza, invece che come sempre nel passato e nell’archeologia, questa volta Indiana Jones non sbaglia niente. Questa storia ambientata negli anni ‘60 che ha un prologo (bellissimo) negli anni ‘40, è come si conviene quella della ricerca di un oggetto antico creduto perduto, uno dotato di poteri non magici (né religiosi) ma matematici, un’avventura che ha a che vedere con il tempo.

Il tempo è tutto nella trama di questo film ed è tutto anche nella sua architettura, pieno com’è di orologi da polso ovunque, pieno di flashback, pieno di momenti in cui si deve correre contro i secondi per non morire soffocati o annegati. Il tempo è cruciale a tanti livelli diversi in Indiana Jones e il quadrante del destino, cosa che espone la dialettica di cui vive il film stesso, cioè la sua lotta contro gli anni che lo separano dai primi tre. Lo sforzo del film non è diverso da quello del suo protagonista e la sua lotta è proprio la stessa. Già in Logan James Mangold aveva mostrato di avere una chiara idea del tempo e del cinema, di sapere come trattare l'eroismo di una volta in una versione terminale e di saper manipolare versioni giovani e anziane dello stesso personaggio. Qui pure è chiamato a prelevare qualcosa dal passato, cioè un film di Indiana Jones, e trasportarlo nel presente del cinema, cercando di fare in modo che vada ancora bene, che funzioni e abbia l’effetto di una volta, ma toccandolo il meno possibile per non snaturarlo. 

In questa lotta contro il tempo per avere ancora un ultimo vero film di Indiana Jones le armi più affilate sono il ringiovanimento digitale (usato per una porzione non indifferente del film, e in momenti chiave) e il suo opposto, cioè l’invecchiamento reale, in modo che il secondo possa avere un effetto visto affiancato al primo. Quando incontriamo il protagonista infatti è un relitto, un professore a un passo dalla pensione che nessuno più segue e che vive solo (gli eventi del film precedente sono liquidati in poche battute e, sostanzialmente, resi innocui). Mangold ce lo fa vedere in tutta la sua cadenza senile. Il contrario dell'Indiana dei flashback, nonostante il ringiovanimento non sia impeccabile e nelle scene più concitate si noti l’artificio (la cosa più grave è che leva a Ford le sue espressioni sbruffone). Tuttavia la scena più lunga nel passato (quella iniziale) è così perfetta e sublime che non importa se la voce sia del Ford di oggi, le espressioni siano legnose e qualche movimento sia da anziano. La scrittura dell’azione è così perfetta e così in stile che ci si passa sopra volentieri. Mangold infatti deve imitare Spielberg e lo fa a partire proprio dalla coreografia e dalla scrittura dell’azione, che come in Spielberg sono i momenti in cui capiamo cosa pensino davvero i personaggi, cosa li leghi e quali siano i loro reali conflitti. Come agiscono nei momenti di rischio, quando facciano ironia e come mescolino muscoli, ardore e furbizia è tutto in un film di Indiana Jones. E Mangold lo sa.

In definitiva Indiana Jones e il quadrante del destino è un film scritto e diretto da qualcuno che conosce molto bene due cose: come funziona il cinema e cosa sia, in ultima analisi, un film di Indiana Jones. Senza anche solo una di queste componenti non si può resuscitare un saga, lo abbiamo visto con Top Gun: Maverick. James Mangold con Jez Butterworth, John Henry Butterworth e David Koepp ci sono riusciti. E anche se Harrison Ford non si può dire sia al suo meglio il film sa appoggiarsi benissimo a Phoebe Waller-Bridge, che integra il suo umorismo e la sua personalità con quella di Indiana Jones, entra perfettamente nello stile e compensa tutto con un dinamismo e un fascino eccezionali, proprio quando Harrison Ford arranca di più, così che il tono rimanga alto. Lo status di co-protagonista non le viene solo dato dalla sceneggiatura, lo sa prendere e se lo guadagna realmente. Inoltre avere Mads Mikkelsen come cattivo è il lusso definitivo, classico e moderno contemporaneamente, manicheo e odioso come si deve (come il Toht di I predatori dell’arca perduta) ma poi sottilmente umano, animato di desiderio e bramosia veri (come invece era Belloq in quel film). Mikkelsen, lui sì che è fuori dal tempo!

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