Incastrati (prima stagione): la recensione

Incastrati, la serie di Ficarra e Picone si concentra più nel mostrare la Sicilia che nel far ridere, finendo la benzina dopo pochi episodi

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Incastrati (prima stagione): la recensione

Incastrati, la serie di Ficarra e Picone, è una scusa per far vedere la Sicilia. La patria del duo comico è infatti un soggetto ripreso con amore per raccontarne alla fine però le solite contraddizioni: paesaggi bellissimi, un popolo con un carattere distintivo e irresistibile; l’ombra costante del crimine organizzato, nel caso specifico Cosa nostra, come una ferita nel fianco. Più che la risata, che qui non ha quasi mai gli spazi e i tempi gusti, colpisce come viene rappresentato lo spazio in cui si svolgono le vicende.

Per tutti e 6 gli episodi di Incastrati le inquadrature che incorniciano le gesta dei due malcapitati sono a dir poco statiche, con luci sparate al massimo e composizioni al minimo della complessità. Poi, ogni tanto, la storia viene messa in stop per mostrare il mare, una bella ripresa con il drone, gli edifici immersi nella natura... Quasi uno spot da film commission più che un prodotto di intrattenimento.

Piegandosi verso la comicità che più mette a proprio agio il duo Ficarra e Picone, Incastrati è una commedia degli equivoci dura e pura e sempliciotta, con tutto quello che comporta in termini di divertimento. Due amici ingenui e combina guai si ritrovano per caso sul luogo di un omicidio. Guidati dalla passione per i crime, i protagonisti cercano di uscire dalla situazione facendo tutti gli errori possibili: toccano gli oggetti, addirittura sparano per sbaglio un colpo di pistola e si tirano addosso il movente più convincente possibile. Decidono allora di scappare dalla giustizia magari cercando di risolvere il crimine prima che la polizia li trovi.

Nonostante la breve durata degli episodi (6 di 30 minuti), fatica a reggere oltre il suo episodio pilota. Il meccanismo comico tira subito la corda diventando alla lunga prevedibile. Sembra più materiale per un film, quello che va a riempire la serie, che per una narrazione più lunga e a cliffhanger. È come se il bisogno di dover dare ad ogni puntata una scusa per appassionare togliesse tutto il tempo per la costruzione della risata in funzione del colpo di scena. Si corre veloci tra "colpi di scena" e ribaltamenti senza costruire una risata più elaborata di un gioco di parole o di una botta in testa.

Il più grande problema è infatti che se un film come Il 7 e l’8 si metteva al servizio della simpatia dei due attori esaltandola, Incastrati li soffoca costringendoli a correre in lungo e in largo dietro alla trama. Il meccanismo comico è sempre lo stesso: qualcuno sa qualcosa che gli altri non sanno o non hanno capito, allora cerca in ogni modo di non farselo sfuggire. Non ci riuscirà. Quindi inconsciamente riempie ciò che dice di allusioni e doppi sensi (non sessuali o volgari, ma proprio frasi a doppia interpretazione) che l’interlocutore non capisce e lo spettatore sì. 

Molto lontana dallo stile Netflix e più vicina a quello da TV generalista, la serie non riesce a mantenere costante il livello sobbalzando di episodio in episodio. Il pilot è il più riuscito, dicevamo, ma trova anche nel quinto qualche buono spunto. Gli altri si trascinano stancamente di freddura in freddura. 

Incastrati fa una grande promessa che non riesce a mantenere: ovvero di avere innescato una valanga di incomprensioni che man mano doveva accrescersi fino all’esplosione tragicomica sul finale. Non è così invece: come in una barzelletta raccontata troppo a lungo l’enunciazione si incarta sulle stesse situazioni affossando ogni entusiasmo per il colpo finale. Quando arriva è poi oscurato da un velo di malinconia. Non che ci sia chissà che critica sociale, anzi spesso cedono a un populismo facilone, però è chiaro l’intento di far riflettere con un sorriso.

Un’amarezza ruffiana, che non ride mai dello spettatore e delle sue abitudini. Anzi, il bersaglio è sempre un qualcuno che è il più distante possibile: un monaco, un criminale, un politico potente. Gli altri sono tutti bravi cittadini in cui ci si può identificare.

L’Italia che raccontano sembra non essere mai stata vissuta veramente, se non attraverso molti filtri imposti dalla comicità in televisione. A furia di “mariti cornuti”, di troppe serie televisive “che fanno male”, e di “uomini tutti uguali perché bugiardi patologici”, si perde presto ogni voglia di ascoltare questa predica fatta di luoghi comuni. Eppure Ficarra e Picone ci hanno abituato ad altro, soprattutto attraverso il netto contrasto tra i loro corpi e i caratteri. Qui sono invece troppo simili, annullando quella dinamica interna di amore e odio che ha fatto la fortuna del duo.

Restano solo i loro volti caldi e accoglienti. Si apprezzano le molte buone intenzioni, che non riescono però a salvare un prodotto troppo generico per essere accattivante. Con meno eventi e più tempo per costruire le emozioni, Incastrati avrebbe potuto facilmente essere infinitamente migliore soprattutto data la capacità di Ficarra e Picone di passare da un registro vivace a uno più malinconico e riflessivo. In questo caso non ci hanno nemmeno provato, pur avendo in mano una struttura che avrebbe permesso molta più sperimentazione e più divertimento creativo.

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