In viaggio, la recensione

Documentario commissionato dal Vaticano, che usa in linea di massima immagini del Vaticano e nel quale Rosi non si dibatte nemmeno troppo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di In viaggio di Gianfranco Rosi, il documentario presentato al Festival di Venezia

Chiamato dal Vaticano a lavorare ad un documentario su commissione sui viaggi pastorali di papa Francesco, Gianfranco Rosi ha realizzato un film di montaggio su immagini in gran parte non sue ma appartenenti all’archivio vaticano, ne ha aggiunte altre dai suoi film e poi altre ancora le ha girate in prima persona seguendo il pontefice in uno di questi viaggi. Il risultato è un film che soddisfa di certo i committenti e che lascia poco spazio alle idee di cinema di Rosi, semmai più alla sua visione di mondo. Lo stile di montaggio infatti è sempre il suo, molto chiaro, molto asciutto e minimale ma poi anche molto personale, uno stile che rivendica sempre un punto di vista e delle opinioni, ma stavolta la “documentazione” in senso stretto sembra più potente della visione.

Lungo In viaggio vediamo alternarsi immagini tipiche da capi di stato (i bagni di folla e le parate o i caccia militari che scortano il suo aereo) ai discorsi e quindi alla spiritualità. Almeno in teoria. Perché tutti i passaggi scelti sono poco spirituali e molto più umanisti che religiosi. Uno di questi addirittura dice “Lasciamo che i teologi si occupino delle cose astratte”. Povertà, guerra, migrazioni, natura… I temi sono quelli che è lecito aspettarsi, gli esiti dei discorsi pure. Nulla che non sia già noto. Non è un film di scoperta questo, semmai uno in cui Rosi cerca di applicare il principio herzoghiano della verità estatica (il fatto, in parole povere, che la realtà sia insufficiente per trovare la verità nelle immagini e abbia bisogno di essere contaminata dal falso per fare quel salto di significato).

Alcune immagini sono modificate (il sonoro ad esempio non sempre è quello originale, alle volte è semplicemente levato), alcuni affiancamenti di montaggio sono molto forzati, come quando nel viaggio in Turchia vediamo prima la risposta di Erdogan sull’uso che il papa aveva fatto della parola “genocidio” (un momento politicamente importante) e poi il silenzio tra i due durante il loro incontro. I due hanno parlato in realtà, non sono stati in silenzio se non in attesa di iniziare, ma affiancati così i due momenti suggeriscono una frizione che non c’era nei fatti ma sicuramente c’era nella realtà politica.

Solo nel finale di questo film abbastanza convenzionale e in linea di massima poco interessante, farà capolino l’immaginario di fatica e assunzione dei dolori che spesso vediamo attribuita ai papi e che molto caratterizzò gli ultimi anni di Karol Wojtyla. Bergoglio sempre più in difficoltà per i suoi acciacchi personali fatica a deambulare e Rosi mostra proprio questo, la complessità degli spostamenti anche semplici, le persone che lo aiutano e la maniera in cui il corpo del papa (figura spirituale per eccellenza) sembri assumere contorni cristologici. La sofferenza è da sempre parte della mitologia cristiana, è sempre il viatico per la grazia, la strategia per la salvezza personale e anche altrui. Rosi invece di dare una sua visione del papa aderisce in pieno a questa idea e ricalca su Francesco quella medesima idea di un uomo che trasfigura se stesso soffrendo per il bene di tutti.

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