In the land of saints and sinners, la recensione | Festival di Venezia

Con In the land of saints and sinners Lorenz sfrutta i cliché del western per creare una riuscita parabola irlandese di vendetta e redenzione

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La recensione di In the land of saints and sinners, il film di Robert Lorenz presentato al Festival di Venezia 2023 nella sezione Orizzonti Extra

A Robert Lorenz, nativo di Chicago, il western piace davvero molto. Giunto al secondo lavoro come regista, recupera il protagonista della sua opera prima Liam Neeson per porlo al centro di un racconto che del western ha tutto: dal saloon ai fuorilegge, dai paesaggi incontaminati alla figura - centrale, appunto - del giustiziere con le mani sporche di sangue ma con un proprio personale, condivisibile senso di giustizia. Se non fosse che, invece della frontiera americana, In the lands of saints and sinners ha come cornice le scogliere dell’Irlanda del Nord.

Prima di approdare alla regia, Lorenz ha prodotto Mystic River, Gran Torino, Changeling, American Sniper, Invictus, Flags of Our Fathers; l’elenco potrebbe proseguire, ma bastano questi titoli a dar l’idea di quanto la collaborazione con Clint Eastwood possa aver influito sull’elaborazione della poetica personale di Lorenz. Ritroviamo, infatti, lo stesso interesse a dipingere protagonisti spezzati, non giovanissimi, custodi di segreti che, impietosi, continuano a bussare con insistenza alla porta.

Delitti e castighi

Così è il Finbar di Neeson in In the land of saints and sinners, sicario di mezza età, avido lettore di Dostoevskij e compagno di bevute del bonario poliziotto Vinn (Ciarán Hinds). Pur avendo un curriculum di assassinii piuttosto corposo, Finbar (Neeson, per l’appunto) ha il classico cuore d’oro vecchio stampo che gli rende impossibile tollerare soprusi ai danni di categorie ritenute “deboli”, quali donne e bambini. Proprio per difendere una piccola conoscente, finisce per inimicarsi un gruppo di separatisti dell’IRA (la vicenda si svolge sullo sfondo dei tumulti irlandesi degli anni ‘70).

E qui, In the land of saints and sinners strizza l’occhio allo spettatore contemporaneo. A capo dei fuorilegge non c’è uno spietato bandito baffuto, magari sfregiato da qualche cicatrice, ma l’indomita, arrabbiatissima Dorianne (Kerry Condon, magnifica come ormai ci ha abituati a vederla). Una donna agguerrita, dolente e “crudele”, come nota subito lo scanzonato, un po’ spostato collega di Finbar, interpretato da un Jack Gleason che è mancato parecchio all’industria filmica dopo la pausa post Game of Thrones. Ne nasce, come prevedibile, una parabola vendicativa dal ritmo serrato, illuminata da un cast splendido e da un umorismo che delizia e coinvolge.

Terra di sangue

Seppur costruito in base ai grandi tropoi del cinema western, In the land of saints and sinners li declina sapientemente senza forzare la mano, a dimostrazione dell’universalità di certe tematiche. Omaggiando la suggestiva bellezza dell’Irlanda spezzata dalle stragi politiche, si inserisce a pieno titolo nella scia delle migliori storie di vendetta e redenzione; perché, come Lorenz non manca di ricordare, non si diventa santi senza prima esser stati - almeno un po’ - peccatori.

Non è un caso, in tal senso, che i cadaveri mietuti da Finbar nutrano le radici degli alberi che il sicario, appassionato di giardinaggio, pianta sopra le loro sepolture nascoste nelle verdeggianti colline della contea di Donegal; perfetta parafrasi della storia irlandese dell’ultimo secolo, In the land of saints and sinners si concede il lusso di questa calzante metafora che ci ricorda come la bellezza mozzafiato del paese che racconta poggi su un terreno intriso di sangue.

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