In Between Dying, la recensione | Venezia 77
Ciò che rimane di In Between Dying non è la riflessione, che davvero non si riesce ad afferrare, ma solo tanta, tanta, tantissima nebbia
In Between Dying parla di un uomo, Davud, in cerca di sé stesso. Davud vuole ritrovare la sua famiglia, ma durante il suo viaggio in moto tra i grandi paesaggi dell’Azerbaijan viene interrotto da una serie di incontri che lo portano fuori strada. Davud è infatti inseguito dagli uomini di “il Dottore”, il quale lo vuole morto per avere ucciso uno dei suoi. Nel contempo, mentre fugge da questi, Davud incontra diverse figure di donne in cerca di una liberazione, e si ferma ad aiutarle nella loro scoperta di una nuova consapevolezza. Grazie a questi incontri sarà pronto a trovare la vera risposta: ma forse per lui sarà già troppo tardi.
E sebbene il tentativo di dare una personalità al film attraverso l’uso ripetuto del montaggio interno – ovvero il seguire le sequenze in profondità di campo, tenendo la stessa inquadratura dall’inizio alla fine, in cui è il movimento dei personaggi che entrano ed escono a cambiare la scena – faccia sperare in una visione più decisa, ecco che questa scelta viene a perdere di senso quando accostata a sporadici primissimi piani (a spezzarne il ritmo) e scene oniriche ripetute ossessivamente, uguali a sé stesse, dove il personaggio riflette a gran voce sul suo dilemma.
Di In Between Dying ciò che rimane allora non può essere la sua riflessione, che davvero non si riesce ad afferrare, ma solo tanta, tanta, tantissima nebbia.