I'm Still Here, la recensione: Walter Salles dipinge un grande affresco familiare contro la dittatura

Walter Salles sbarca a Venezia con I'm Still Here, storia vera della famiglia Paiva durante la dittatura militare in Brasile

Condividi

Dura “solo” due ore e un quarto I'm Still Here (Ainda estou aqui) di Walter Salles (presentato oggi in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia), eppure davanti agli occhi sembra di veder scorrere un’intera vita. Quella in questione appartiene a Eunice (Fernanda Torres), madre di cinque figli e moglie dell’ingegner Rubens Paiva (Selton Mello) nel Brasile dilaniato dalla dittatura militare di Médici. Un Brasile che, nelle prime scene del film di Salles, ci viene presentato sotto una luce dorata solo sporadicamente offuscata dalla nube di camionette e posti di blocco, non sufficienti comunque a ingrigire l’idillio assolato della famiglia Paiva.

E così dev’essere stata la vita per il piccolo Marcelo, figlio di Eunice e Rubens nonché autore del libro da cui il film è tratto, almeno fino al giorno in cui il padre non è stato prelevato da membri dell’esercito in borghese per essere interrogato. La progressiva e inesorabile discesa all’inferno dei Paiva gratta via, pezzo dopo pezzo, ogni scheggia del chiaro smalto con cui Salles aveva tratteggiato il suo splendido ritratto di famiglia. Eppure, a dispetto della brutalità senza senso di un contesto politico oppressivo e volto all’eliminazione di ogni libero pensiero, la monumentale Eunice si staglia al di sopra dei soprusi e della gretta prevaricazione, a rivendicare una dignità granitica che nessuna dittatura è in grado di scalfire.

Una figura femminile gigantesca, specchio della Eunice reale, vera prima ancora che verosimile, resa vivida dall’istintiva premura nei confronti dei figli così come dalla determinazione a scoprire con ogni mezzo la sorte dell’amato marito. Attorno a Torres, qui impegnata in una prova di vibrante impatto che potrebbe portarle la Coppa Volpi, si muove un microcosmo familiare di adolescenti e bambini (tutti bravissimi) più uniti e affiatati che mai, in stridente contrasto con il clima di mortifero isolamento auspicato dalla tirannia. In quest’ottica, i figli dei Paiva sono importanti quanto i genitori: Salles è abile ritrattista, e si diverte a caratterizzare ciascuno dei ragazzi per farlo entrare senza fatica nel cuore dello spettatore. Un intento comprensibile alla luce del nesso biografico tra il regista brasiliano e la famiglia Paiva, cui lo lega un’amicizia di lunga data. 

Eppure, non c’è rischio di agiografia in Ainda estou aqui; quando l’orrore è così sfacciato, non c’è bisogno di ricorrere alla santificazione delle vittime. Piuttosto, Salles ci tiene a sottolineare come la sciagura delle tante sparizioni politiche, il vuoto lasciato dalle migliaia di desaparecidos sia stato almeno in parte lenito dalla solidarietà, dalla sete di giustizia e dalla strenua ricerca della verità. In tal senso, la sua opera si fa portatrice di un senso di speranza - ben esemplificato dal titolo, traducibile con Io sono ancora qui - che celebra la sopravvivenza piuttosto che indulgere in un più che giustificato dolore.

Non a caso, il punto di vista scelto è - per lo più - quello di chi è riuscito a scampare alla falce del mietitore; coloro che restano, ci dice Salles, hanno il dovere di lottare e ricordare coloro che sono stati brutalmente cancellati dalla propria esistenza. Ainda estou aqui è, in fondo, un racconto-sineddoche: parlando dei Paiva e della difficoltà di sopravvivere alla perdita parla di tutto il Brasile, dello squarcio aperto sul corpo di un intero paese ancora sanguinante. Un racconto splendido e toccante, che ricorda al mondo - e soprattutto al Brasile di oggi, drammaticamente vicino agli estremismi di allora - che nessuno è al sicuro, e che l’oppressione è un nemico implacabile con cui non ci si può permettere la minima distrazione.

Continua a leggere su BadTaste