I'm Dying Up Here, la recensione dei primi due episodi

La nostra recensione dei primi due episodi di I'm Dying Up Here, la dramedy HBO sulla scena comica a Los Angeles negli anni settanta

Critico e giornalista cinematografico


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Il dramedy era forse l’unica possibile maniera di raccontare la scena della stand up comedy, specie quella terribile, competitiva e dura della Los Angeles negli anni ‘70, il periodo in cui sono emersi Richard Pryor, George Carlin e Andy Kaufman, ridefinendo il concetto di cosa un comico possa (o debba) fare. Il dramedy è il solo registro possibile perché una serie del genere non può prescindere dall’umorismo e aggiungere a questo anche un tono da commedia, sovrapporre le battute che i personaggi devono dire per lavoro con quelle che la serie deve dire per intrattenere il pubblico, forse sarebbe stato troppo. Invece alla base di I’m Dying Up Here c’è l’idea di smussare i confini tra le risate del pubblico dei locali in cui i personaggi si esibiscono o quelle dei personaggi che ascoltano con quelle dello spettatore. Non c’è insomma mai solo lo spettatore a ridere, ma sempre qualcuno che ascolta il comico fare la sua battuta, c’è la reazione in campo, il bisogno di essere ascoltati e di capire se quel che è stato detto fa ridere qualcun altro oltre noi.

Nella grande storia corale messa in scena con un’esibizione eccessiva della propria epoca (quante canzoni, abiti, colori e oggetti dal design anni ‘70 si possono mostrare prima che tutto cominci a sapere troppo artificiosamente di fasullo e sottolineato?) questa è una delle poche idee davvero convincenti di tutto il progetto: lavorare su chi ascolta le battute, sull’ansia del risultato negli occhi di chi ride e di chi non ride. “È bello avere una fidanzata che è una comica” dice Bill a Cassie quando a letto dopo aver sentito una sua battuta ride e lo aiuta a metterla a punto.

I’m Dying Up Here del resto è promosso e prodotto da Jim Carrey a partire dal libro di William Knoedelseder e lo stesso Carrey si è formato proprio in quel mondo losangelino (ma qualche anno dopo il 1973) nel locale Comedy Store, dove si esibivano tutti nomi già scritti in questa recensione più molti altri. Intorno a racconti veri e fasulli di quel tempo e quel luogo girano gli eventi della serie, attorno alla sua mitologia e allo stile di vita di chi tentava di diventare un comico, adottando però una serie di forzature così lontane dalla vita reale e così vicine alle consuetudini di cinema e tv che ogni volta sembra di poter riconoscere cosa è stato creato da zero e cosa invece è stato vissuto da qualcuno.

Dei molti stand up comedian c’è chi sembra avercela appena fatta (il Clay Appuzzo di Sebastian Stan con cui si apre la prima puntata), chi lotta per affermarsi in un mondo di uomini, chi lotta con i propri demoni, chi è disposto a tutto, chi è cinico, chi è buono, chi viene da fuori città e sogna un posto sul palco principale del locale, chi è giovane e nero. Ognuno ha il suo stile comico, in ogni puntata vediamo esibizioni sul palco e ognuna è caratterizzata a dovere, ognuna ha una parlata diversa, temi diversi e ritmi diversi. È evidente che l’aderenza al mondo della stand up comedy è la cosa migliore di tutte, è evidente che questa è una serie scritta da chi conosce quella scena.

Eppure è anche troppo evidente che l’obiettivo primario sia dare dignità ad un mestiere, mostrando da una parte ciò che c’è dietro, il lavoro dietro ogni battuta, il maturare di una gag attraverso continue migliorie, e dall’altra come si fondi su una lotta spietata per giungere a quella che all’epoca era la destinazione da sogno di ogni stand up comedian: qualche minuto nel Late Show di Johnny Carson. Jim Carrey stesso ce la fece nel 1983, in una famosa esibizione che gli aprì le porte di Hollywood, ma al contrario di lui i personaggi che incontriamo sembrano molto lontani da quel trionfo per esigenze di intreccio che li portano ad aspirare. C’è infatti una morte improvvisa già nel primo episodio e lo show di Johnny Carson desidera distanziarsi un po’ dal mondo dei comici nonostante le insistenze di Goldie, la donna che gestisce il locale, le vite e le carriere degli stand up comedian, decidendo chi è pronto e chi no per il palco principale, chi deve lavorare sulle battute e chi sulla propria identità. È come se fosse l’agente di tutti loro tutti insieme, una figura anch’essa reale, modellata sulla vera Mitzi Shore.

I’m Dying Up Here non sembra avere davvero il fiato e il cuore per affermarsi come uno degli esempi migliori

Non è un mistero che le dramedy siano un genere in ascesa nella serialità televisiva americana, un tempo campo di generi codificati e molto rigidi. Atlanta e il suo successo hanno segnato la via più di tutti. Ma I’m Dying Up Here non sembra avere davvero il fiato e il cuore per affermarsi come uno degli esempi migliori. Di sicuro non ne ha i dialoghi.

A fronte di un corpo di battute estremamente efficaci (e, visto il tema e la quantità, non è davvero poco), la serie creata da David Flebotte associa in maniera troppo meccanica e prevedibile drammi individuali e contesto comico. Affiancare le svolte drammatiche alle battute è la missione del progetto ma la maniera per nulla armonica con cui avviene stona moltissimo con le ambizioni. Dei tanti personaggi che ci vengono introdotti nelle prime due puntate molti arrivano con la loro targhetta: ci sono i due ragazzi che vengono da fuori, cioè gli alleggerimenti comici, c’è la donna che cerca di emergere, cioè la linea sentimentale, c’è l’anima tormentata, il capo e poi il buon amico di tutti. Sembra il cast di una serie degli anni ‘80. E se non doveste capire da soli i personaggi, essi stessi a parole raccontano il proprio carattere.

Con l’ottimo umorismo profuso ad intervalli così regolari da far intravedere una pianificazione, I’m Dying Up Here non manca di avvincere e di coinvolgere, ma ci si chiede quanto della serie funzionerebbe se non fosse così divertente. Per quanto le battute siano più di un accessorio, visto lo scenario, è evidente che senza la loro componente di intrattenimento la storia rivelerebbe ben presto la propria inconsistenza, quando invece proprio la storia dovrebbe tenere incollati.

Posto che non siamo in una serie tv di prima fascia, una di quelle in grado di ridefinire il proprio genere, I’m Dying Up Here dovrebbe se non altro garantire un andamento leggero ed invisibile invece di svelare continuamente la maniera macchinosa con la quale apre e chiude spunti o archi narrativi.

Solo nei primi due episodi vediamo i ragazzi venuti da fuori trovarsi di fronte al problema di non avere né casa né denaro per sostentarsi e risolverlo partecipando ad un tipico quiz show americano di quegli anni. Vediamo una storia d’amore nascere ed entrare in difficoltà. Vediamo una rivalità accendersi con una rissa dopo una brutta performance sul palco e risolversi in amicizia con una stretta di mano. Vediamo un comico giovane essere stranamente assoldato per lavori manuali ma capiremo anche il perché.

I’m Dying Up Here mostra un fiato cortissimo, è timorosa di lanciare il cuore oltre l’ostacolo e sembra attaccatissima a una narrazione così canonica da non essere per nulla adeguata al mondo dilatato della serialità moderna. Vorrebbe appartenere al genere di Mad Men, The Knick, Halt and Catch Fire o Vinyl, cioè le serie che raccontano un’epoca attraverso la professione che in quegli anni attraeva i caratteri più moderni e che consentiva più di tutte di stare sul crinale dell’innovazione. Invece riesce ad essere più vicina alle serie corali e scaldacuore degli anni ‘90.

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