I'm Dying Up Here 1x:03, "The Cost of a Free Buffet": la recensione

La nostra recensione del terzo episodio della prima stagione di I'm Dying Up Here , intitolato "The Cost of a Free Buffet"

Critico e giornalista cinematografico


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Spoiler Alert
Se i primi due episodi di I’m Dying Up Here hanno stabilito, oltre alle storie individuali, come e perché il sogno di ogni comico della scena di LA degli anni ‘70 fosse avere un po’ di minuti nello show di Johnny Carson, ora “The Cost of a Free Buffet” mette in chiaro quanto in questo processo sia determinante e unico il locale di Goldie.

La trama mette infatti Edgar Martinez, il comico di origini messicane che ama scherzare sugli stereotipi messicani e sulla difficile integrazione dei messicani in America, a confronto con un’altra realtà, un locale rivale del Goldie’s che sembra coccolare di più i comici, tanto da offrirgli, ogni sera, un buffet in cui servirsi a volontà.

Il suo passaggio nel locale avversario non passa inosservato, Goldie lo viene a sapere e lo leva dalla lista di chi deve esibirsi, come vendetta. Ne scaturiranno diverse discussioni in cui emerge il punto di vista e l’idea con cui Goldie gestisce il locale: solo da lì si arriva da Carson, chi si esibisce lì quindi lo fa in esclusiva e non può andare da nessun’altra parte a Los Angeles, altrimenti è fuori. Alla fine, come ritorsione contro Bill che l’ha accusata di non pensare davvero agli affari (perché fa esibire un’amica che ormai non fa più ridere), Goldie leverà anche i drink gratuiti.

Intorno a questo troncone principale si sviluppa tutta la puntata portando avanti sia il difficile rapporto di Bill con il padre, che la lenta scalata di Cassie. Ed è proprio lei, Cassie, sempre più la protagonista vera della serie, l’unica ad avere un arco narrativo degno di questo nome, pieno di contrasti, difficoltà e capace di non esaurirsi mai. Nonostante infatti l’abbiamo vista più volte misurarsi con del maschilismo e un po’ di sfiducia verso di sé, uscendone vincitrice, sembra che debba sempre dimostrare qualcosa, che il suo percorso non termini alla fine della puntata ma colleghi gli episodi.

La maniera in cui questa volta riscuote un grande successo di pubblico senza le risate, con un pezzo molto vero e duro sull’essere donna sebbene poco divertente, mette in crisi sia lei che Goldie, insoddisfatta del poco humor ma colpita dal successo e dalla partecipazione del pubblico. Cassie ha trovato una strada, tra tutti i comici del locale sembra l’unica ad aver capito quanto il coraggio e trovare qualcosa di serio da dire possa contare, le manca solo di unirlo alle battute.

Intanto per fortuna la trama parte di trama di Eddie e Ron, i ragazzi appena arrivati da Boston, comincia a prendere un po’ di trazione e smette di essere solo l’alleggerimento. Si dovranno confrontare con un comico ventriloquista che non si separa mai dalla sua bambola, e anche nelle conversazioni ordinarie fa dire a lei i suoi veri pensieri. Escono dalla sua bocca cattiverie e razzismo che altrove non sarebbero ammissibili. Quando sfida Adam su questo terreno i tre formano una piccola alleanza e, sfruttando un momento di difficoltà che lascia il palco vuoto, ci salgono sopra improvvisando un pezzo di comicità a tre tutto sul razzismo di grande efficacia. Pezzo che non passa inosservato e fa partire la loro scalata.

Con una scelta di montaggio un po’ meccanica poi, i tre seduti a cena si troveranno al tavolo accanto ai comici più navigati che, per la prima volta, sembreranno degnarli di stima.

Sta però qui il più grande spunto che I’m Dying Up Here non riesce davvero a cogliere, quello degli anni in cui è ambientato. Se la maniera in cui racconta la scena comica ha un senso e si evolve, il modo in cui evidentemente vuole collegare tutto ad un momento di passaggio nel costume e nella consapevolezza delle minoranze ancora non funziona e rimane dalle parti più puerili. Non funziona per Cassie, messa ai margini perché donna, non funziona per Adam, preoccupato del suo essere nero e non funziona nemmeno per Eddie il messicano. Sono proprio questi anni ‘70 così patinati ed esagerati a non parlarci più di nulla, sembrano usciti da una vecchia serie e non hanno niente del fare sofisticato e invisibile di quelle contemporanee.

Nonostante sia quello il periodo giusto per la serie (perché erano gli anni in cui quel mondo esplodeva e diventava innovativo) l’impressione è che un po’ meno di enfasi sul periodo sarebbe un toccasana.

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